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TRA STORIA E TENDENZE

Fiori che si mangiano, dall’uso dei grandi cuochi del passato come Apicio alla “moda” del foraging

L’esperta Sandra Ianni: “i commestibili sono oltre 1.500, ma non ci si può improvvisare e bisogna essere parsimoniosi nell’approvvigionarsi in natura”

“L’utilizzo dei fiori in cucina come trovata modaiola è ormai un argomento datato. I grandi chef lo hanno sperimentato già 10-15 anni fa. Ma se andiamo a vedere nella storia della gastronomia non si sono inventati nulla, perché i più famosi e importanti cuochi del passato come Apicio, Bartolomeo Scappi e il Maestro Martino ci danno testimonianza dell’uso dei fiori sia nella cucina aristocratica che in quella contadina. E non devono essere solo degli orpelli, perché un petalo di rosa non può far diventare più buono un piatto cucinato male: un fiore può dare un sapore più intenso e diverso o condire meglio un piatto, ma può rendere anche meno tristi le ricette di chi è dieta”. Ingrediente che divide ed ha sempre fatto discutere chef e gastronomi, a raccontare a WineNews dei fiori che si mangiano è la scrittrice Sandra Ianni, esperta in cultura enogastronomica ed etnobotanica, tra gli altri per Slow Food, che ha riportato alla luce, dopo 500 anni, la ricetta per realizzare l’“Hypoclas”, il “vino medicinale” di Isabella de’ Medici Orsini da un manoscritto di spezieria del XVI secolo.
Ma tra i fiori eduli, quali sono quelli più buoni, quelli diventati un ingrediente più recentemente e quali quelli che non si possono proprio mangiare? “Tutto ciò che è naturale non è detto che sia benefico - avverte Ianni - occorre fare attenzione ai fiori che abbiamo raccolto, tra i quali l’aconito è il più potente veleno vegetale, e bisogna conoscere soprattutto quelli selvatici. I più diffusi in cucina sono le rose, delle quali abbiamo testimonianze fin dalla Roma imperiale e dalla ricetta del vino alle rose nel “De Re Coquinaria” di Apicio. Ma anche le violette e le margherite, in particolare quelle di campo, le Pratoline - Bellis Perennis. Sono oltre 1.500 i fiori che possono essere mangiati, da quelli selvatici a quelli coltivati. Tra i primi, attingendo alle tradizioni contadine, c’è il sambuco che si ritrova in tantissime preparazioni salate e dolci, come i pani per occasioni rituali. Il più strano da mangiare, ma allo stesso tempo anche il più facile da coltivare sul balcone, è il tropeolo, noto con il nome comune di nasturzio, e che si abbina molto bene a diverse pietanze. C’è poi la bocca di leone, che può essere anche farcita”.
“Ma la cosa più bella dei fiori - sottolinea l’esperta - è poter raccontare le loro storie, fatte anche di miti e curiosità, e spiegare quando sono stati introdotti nella nostra cucina. Perché non si mangia soltanto con i sensi, ma anche con la mente. E noi italiani amiamo molto a tavola parlare del cibo che stiamo mangiando. Il fiore diventa così un “balsamo” per la nostra mente e la nostra anima”.
Come sostiene nel suo ultimo volume “Fame di fiori. Nutrirsi di bellezza”, pubblicato con Youcanprint e presentato nell’ultima edizione di “Food&Book” a Montecatini Terme, la ricerca di fiori ed erbe spontanee commestibili, che sempre più territori propongono come esperienza ai turisti, è un “vecchio-nuovo” modo per avvicinarsi alla natura e imparare a rispettarla. “Noi siamo abituati a vivere in luoghi sempre più chiusi, spesso in compagnia dei nostri smartphone e pc che non ci fanno vedere più in là di 30 cm. Andare a fare un’esperienza di riconoscimento di erbe spontanee ci induce a guardare più lontano, a recuperare il contatto con la natura ed a conoscerla meglio - secondo Ianni - ma non ci dobbiamo improvvisare grandi botanici, perché si rischia di scambiare un fiore di cicuta per uno di carota. Partecipare al foraging con la guida degli esperti oggi è di gran moda, ma serve soprattutto ad imparare a riconoscere quello che si può mangiare”.
In natura esistono numerosissime erbe che possono rendere più gradevole la nostra cucina. “Già nel Settecento il naturalista e medico di corte dei Lorena, Granduchi di Toscana, Giovanni Targioni Tozzetti, tra gli eruditi più in vista della sua epoca e tra i soci fondatori dell’Accademia dei Georgofili, scrisse l’“Alimurgia o sia Modo di rendere meno gravi le carestie”, un libro dedicato alle erbe che si mangiano per salvare il popolo dalla fame. Nell’antica Roma si mangiavano oltre 200 verdure, oggi al supermercato ne troviamo 5-6 di stagione. Ritrovare i sapori dei fiori e delle erbe selvatiche - sostiene la scrittrice - è un modo di riappropriarci di conoscenze antiche che fanno parte della nostra tradizione e riportare in tavola un ingrediente che racconta la nostra storia o quella della nostra famiglia”.
Ma, conclude Ianni, non ci si deve far prendere la mano: “non si può andare in campagna e cominciare a raccogliere tutto ciò che è commestibile per portarlo a casa e lasciarlo appassire perché non abbiamo il tempo di cucinarlo, privando api ed insetti del nettare più importante per la loro e la nostra vita. Bisogna essere parsimoniosi nell’approvvigionarsi in natura”.

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