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POLITICA E BUSINESS

I dazi minacciati da Trump su vini e spirits Ue non piacciono a nessuno. Neanche agli americani

Le impressioni, raccolte da WineNews, a ProWein 2025, tra gli espositori Usa: “wait & see”, aspettiamo e vediamo. Ma la preoccupazione è palpabile
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I dazi minacciati sui vini Ue da Trump rischiano di affossare il wine business in Usa

Ad oggi, i dazi al 200% “su tutti i vini, Champagne e prodotti alcolici provenienti dalla Francia e da altri Paesi rappresentati dall’Unione Europea” annunciati qualche giorno fa dal presidente Usa Donald Trump, se l’Unione Europea non rimuoverà i dazi al 50% sui whisky americani, restano una minaccia, uno spauracchio. A cui nessuno vuole davvero credere, ritenendoli più una provocazione per poi trattare su altri livelli, che altro. Ma in attesa di capire cosa succederà davvero (la “deadline” annunciata, ad oggi, è il 2 aprile 2025, ndr), dopo gli ovvi messaggi di grande preoccupazione lanciati dalla filiera del vino europea e italiana (che abbiamo riportato qui), alla ProWein 2025 (che chiude oggi a Düsseldorf), dove è presente anche una piccola, ma significativa rappresentanza di produttori e distributori Usa, siamo andati a cercare di capire che aria si respira dall’altra sponda dell’Atlantico, nel mercato più importante del vino mondiale (e prima destinazione per l’Italia, che in Usa realizza quasi un quarto di tutto il suo export in valore, 1,9 miliardi di euro su 8,1 in totale, nel 2024, secondo i dati Istat, analizzati da WineNews). E per capire se davvero l’industria americana pensa che eventuali dazi sarebbero qualcosa di “fantastico per le attività di vino e Champagne negli Stati Uniti”, come detto dallo stesso Trump. Che ci sia grande tensione, in un mercato come quello americano, già messo in difficoltà da una situazione economica difficile che deprime i consumi di molti beni voluttuari, vino compreso, lo si percepisce subito, anche dal fatto che, a “microfoni aperti”, nessuno o quasi vuole esporsi e parlare.
Ma fuori dai denti, se tutti ovviamente dicono “wait & see”, aspettiamo e vediamo che succede, emerge chiarissimo il fatto che i dazi sui vini europei l’industria americana non li vede certo come opportunità, anzi: con dazi al 200% (ma anche al 50%, come quelli che oggi l’Ue impone sui whisky Usa) tutti parlano di “shutdown”, di crollo del settore.
Perché, come fanno notare alcuni, se magari nell’immediato si potrebbe anche vendere qualche bottiglia americana in più, bisogna considerare in primis che già oggi oltre il 30% dei consumi americani (e quindi del business) è fatto di vini di importazione (al 70%, grosso modo, da Francia e Italia), e poi perché secondo le stime, ogni dollaro di vino europeo importato ne genera 6 di economia in Usa. E perdere questa economia, per i distributori e gli importatori, vorrebbe dire un crollo clamoroso delle entrate, con conseguenti tagli al personale, alla logistica, e non solo. E inoltre, fanno notare altri, nonostante i ricarichi dalla cantina alla scaffale, nei vari passaggi (con il prezzo del vino che si moltiplica almeno per 6 volte dal prezzo pagato al produttore a quello allo scaffale, e ancora di più nel fuori casa, lungo la catena che passa dal “three-tier-system” americano fatto da importatore, distributore e retail) gran parte dei vini di importazione, europei in testa, servono a coprire delle fasce di prezzo ben diverse da quelle dei vini americani, e californiani in testa, mediamente molto più costosi degli altri. E se qualcuno dice che l’eventuale mancanza di vini francesi e italiani (che nessuno sarebbe disposto a comprare con un dazio al 200%) potrebbe essere colmata dai già più economici vini argentini, cileni, australiani e così via, per altri il rischio è molto più grande e strutturale, come spiega, a WineNews, Greg Livengood di Ciatti, uno dei più grandi broker di vino sfuso al mondo: “il rischio vero è che se il vino diventa difficilmente accessibile ai consumatori americani, questi potrebbero sostituirlo con altre bevande. E poi farli tornare al vino una volta che le cose tornassero alla normalità, non sarebbe né scontato né semplice”.
Un aspetto non da poco, considerato che già oggi i consumi sono in calo, anche perché come dicono tutti gli studi sia i consumatori più adulti che quelli più giovani bevono meno bevande alcoliche, guardando sia alla salute che al portafoglio. Insomma, viene da dire, i dazi non piacciono a nessuno, nell’industria del vino, né agli europei né agli americani, anche se tutti sono consapevoli che poco si può fare se non aspettare, con la coscienza che il vino, con il suo alto valore simbolico, oltre che economico, è solo un piccolo pezzo di un puzzle molto più grande che riguarda il nuovo assetto geopolitico che si sta formando nel mondo, e che rischia di essere solo una “vittima sacrificale” in una guerra commerciale nella quale, direttamente, non ci entra nulla. Intanto però, se c’è chi come il presidente Ice, Matteo Zoppas, intervistato da WineNews alla fiera tedesca, consiglia di “aspettare prima di fare allarmismi”, ricordando che “solo chi è seduto al tavolo delle trattative può parlare dei dazi, candidati autorevoli, come il Ministro Tajani, che guida tutta la diplomazia, e la Premier Meloni, che ha buoni rapporti con l’amministrazione Usa”, qualcosa si muove anche in Usa. Dove il “Wine Institute”, “l’unica organizzazione statunitense che sostiene il vino a livello statale, federale e internazionale”, invita il Governo Usa e quello Ue a lavorare per una soluzione ai dazi su acciaio e alluminio, da cui tutto è partito, sottolineando, in una nota, come “per quasi 25 anni, il “Wine Institute” ha sostenuto fermamente il principio “Wine for Wine”, secondo cui il vino non dovrebbe essere oggetto di ritorsioni in controversie non correlate al vino stesso. L’attuale disputa non ha mai riguardato il vino e queste tariffe danneggeranno solo il settore vinicolo in generale, compresi gli agricoltori, i viticoltori, i distributori, i rivenditori e i milioni di persone che lavorano lungo la catena di approvvigionamento del vino”.
Mentre Diageo, uno dei colossi del beverage alcolico in Usa, nei giorni scorsi, riporta tra gli altri l’agenzia Reuters, ha scritto direttamente al Presidente Donald Trump, in riferimento non ai minacciati dazi sui prodotti Ue, ma sulle controversie commerciali tra Usa, Canada e Messico, sostenendo che i dazi sugli alcolici costerebbero molto agli Usa stessi in termini di business e di posti di lavoro, e suggerendo che, più che dazi e tariffe, per fare crescere l’economia interna degli Stati Uniti, si potrebbe incentivare l’utilizzo di materie prime 100% made in Usa o di Paesi partner, ma anche la distillazione sul territorio nazionale, l’utilizzo di bottiglie, botti e altri materiali di produzione americana e così via. Come dire, dunque: tutto, ma non i dazi.

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