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Il Sole 24 Ore

A me mi piaci - Il Nero di Troia conquista anche in purezza ... L’aria che spira nelle cantine, nei ristoranti, nei wine bar e nelle enoteche sa tanto di un cambiamento del vento. Sempre più si ascoltano musiche e poesie per i vini, ottenuti da vitigni autoctoni, così come aumentano le feste (=fiere e saloni) dove gli unici invitati sono i già citati vini storici italici. Che sta succedendo? Sono sul viale del tramonto i vitigni “apolidi”?

Le ipotesi sono due: la prima, che il consumatore non abbia più voglia di bere quei vini pieni, martellatosi, che dopo il primo bicchiere e mezzo hanno “stufato”, nonostante in prima battuta siano piacevoli assai. Bianchi e rossi, cresciuti in cantina, più che in vigna, tanto per intenderci, magari irrorati dalle polveri di legno, così come si fa a carnevale con i coriandoli. La seconda è che molti produttori italiani, visto che il mercato non è più facile come un tempo e considerato che gli apolidi per definizione sono cittadini del mondo e vanno dove li porta il profitto, si sono resi conto che far la guerra con le stesse armi (cabernet, sauvignon, chardonnay, merlot ... ) e con un equipaggiamento (terreni, lacci e laccioli, quote Ue, disciplinari) molto più costoso è pericoloso.

Il prezzo è determinante in questo momento, ma sempre più le star delle hit parade producono per il mercato bottiglie a prezzi stracciati (o poco meno), mentre per la nicchia (ristoranti stellati, degustazioni, wine bar di prestigio) mantengono il vino civetta. C’è pure chi, in questi ultimi tempi, ha “volutamente” declassato i cosiddetti cru al vino “normale” della fascia consumo.

Senza voler essere a ogni costo partigiano dei vini “autoctoni”, perché mi rendo conto dei grossi limiti (di quantità, ma anche di qualità) di buona parte di questa possibile produzione di cui ormai tutti cono divenuti tifosi (politici in primis, chissà perché), mi fa piacere però notare che i consumatori cominciano a conoscerli, ad assaggiarli e ad acquistarli. Così noto che le nuove aziende che fanno capolino sul mercato stanno cercando non più di scimmiottare i produttori alla ricerca del voto di “Wine Spectator’s” o di Robert Parker, ma di conquistare il consumatore.

Ebbene negli ultimi mesi ho scoperto (è come quella dell’acqua calda …, me ne rendo conto) un vitigno, il Nero di Troia, di cui non è ben chiara l’origine: chi la riporta a Troia, piccolo paese in provincia di Foggia, chi invece alla città di partenza dei greci nelle coste della Puglia. In passato, il vino ottenuto da questa uva era per lo più usato da taglio.
La sorpresa mi è arrivata innanzitutto da uno dei migliori produttori italiani di pomodori in vetro, Paolo Petrilli, dell’Azienda La Motticella (le sue varietà sono sammarzano, il torremaggiorese e i prunilli) di Lucera. I suoi “Ferrau” 2002, prima annata di produzione, un uvaggio di Nero di Troia e Sangiovese, affinato in legno, ricco di profumi, dai tannini insolitamente dolci. Un rosso da seguire con attenzione nei prossimi anni, se manterrà questi eccellenti livelli. Non meno piacevole è l’Agramante (cacc’e mmitte) 2003, ottenuto da un uvaggio dove il Nero di Troia è sempre il protagonista, non è affinato in legno, più beverino, da servire fresco, duttile, può essere abbinato a svariati piatti. Anzi, giocando sulle temperature di servizio, è un vino a tutto pasto.

Sempre in provincia di Foggia, ho assaggiato un altro rosso ottenuto da Nero di troia in purezza, curato da quel mago “suggeritore esterno” che si chiama Luigi Moio. Si tratta del Guido San Leo dell’Azienda D’Alfonso del Sordo di San Severo, un vino fruttato, lungo in bocca. Altra new entry nel mercato del vino è la Tenuta Cocevola di Castel del Monte della famiglia Marmo, fino a ieri produttrice un ottimo olio d’oliva extra vergine. Il suo eccellente Nero di Troia in purezza, seguito da Moio, si chiama “Vandalo” 2003: un rosso dal gusto mordibido, con profumi di frutta variegati (ciliegia, amarena e così via), persistente in bocca.

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