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Corriere Della Sera

Zonin e Biondi Santi, la rivolta dei grandi vignaioli ... L’uso dello zucchero per aumentare la gradazione alcolica è uno degli argomenti oggetto della disputa europea. Ma il tema più spinoso per i grandi nomi del vino italiano è quello dell’etichettatura.. In gioco, un patrimonio di credibilità che ha reso i vini made in Italy i più richiesti al mondo. Qualche dato. Il vino è la principale voce dell’export agroalimentare italiano. Negli Usa, primo mercato extraeuropeo di sbocco, l’anno scorso hanno fatturato un miliardo di dollari. E le vendite nel 2007, nonostante il super euro, sono record: nel primo quadrimestre gli americani si sono bevuti circa 705 mila ettolitri di bianchi e rossi italiani, il 18% in più dell’anno scorso. Nelle enoteche di Soho, il quartiere alla moda di Manhattan, le bottiglie di Barolo a 150 dollari, o di Amarone a 180, restano poco sugli scaffali. E la domanda va forte anche in Germania, Svizzera, Russia (più 80% quest’anno).
E così l’Italia, con consumi interni in calo, è diventata il primo esportatore mondiale di vino: 3,2 miliardi di euro, che portano il fatturato totale del settore a oltre 9 miliardi. Non stupisce che quando i regolatori europei mettono mano al dossier “Organizzazione comune del mercato del vino” (Ocm), come sta accadendo ora, trai 200 mila produttori nostrani serpeggia l’allarmismo. “Sono stato la settimana scorsa in Piemonte ed erano preoccupati” dice Marco Lion, presidente della commissione Agricoltura della Camera, “a questa bozza di riforma si dovrà ancora lavorare”. Efficienza nella distribuzione delle risorse (oggi dei 1,3 miliardi l’anno che la Comunità spende per il settore, 500 milioni se ne vanno per eliminare vino senza mercato), semplificazioni, aumento della competitività, rispetto del tessuto sociale rurale e dell’ambiente: i principi ispiratori sono ineccepibili. Ma quando si va nei dettagli che le cose si complicano.
Oltre alla controversia sullo zuccheraggio (per aumentare la gradazione alcolica, una pratica diffusa nel Nord Europa, dove le uve maturano con pochi zuccheri) voci si sono levate contro le sovvenzioni all’estirpazione di vigneti, per equilibrare offerta e domanda, e contro la liberalizzazione dei diritti d’impianto, che è la licenza di piantare nuove vigne, due provvedimenti che in effetti sembrano in contraddizione. Ma è la semplificazione delle etichette, che permetterebbe anche ai comuni vini “da tavola” di indicare uvaggio e annata, il provvedimento più avversato. Gianni Zonin, colosso del settore, con azienda a Gambellara (Vicenza) e tenute in giro per tutta Italia (e in Virginia, Usa), con oltre 25 milioni di bottiglie prodotte l’anno, è perentorio: “Per l’Italia sarebbe una follia. Da noi l’etichettatura è piramidale”, spiega, “con disciplinari di qualità sempre più severi, a partire dall’Indicazione geografica tipica. Se indichiamo vitigno e annata dove non c’è controllo disperdiamo un patrimonio di credibilità”.
Ciò che si teme è di veder comparire Pinot, Merlot, Nebiolo, Cabernet assemblati con uve proveniènti dai più diversi territori, compresi gli economici mosti della Romania, e privi di garanzie di qualità. Spiega Gigi Piumatti, presidente di Slow Food editore e curatore della Guida ai vini d’Italia: “Il Doc Barbera d’Asti lo puoi fare in solo 100 comuni delle province d’Asti e Alessandria, e se si parla di Docg, in più deve essere prodotto in un determinato numero di bottiglie e passare un esame organolettico rigidissimo. È chiaro che i produttori di questi vini siano contrari a mettersi sullo stesso piano di vini fatti chissà dove”. Per Piero Mastroberardino, titolare di un’azienda campana che è un esempio della rinascita dell’enologia del Sud (Fiano di Avellino, Greco di Tufo e Taurasi i più noti) e presidente di Federvini, “poter competere all’estero anche nel segmento dei vini da tavola e contrastare paesi come Australia e Sudafrica è importante, ma il rischio è di cannibalizzare i vini con forte territorialità, banalizzare l’Igt”.
Per Jacopo Biondi Santi, esponente di una delle più note dinastie del Brunello e produttore di un pregiato Morellino di scansano (55% di export): “C’è una preoccupazione, ma bisognerà vedere cosa verrà fuori alla fine. Certo se si consentirà l’indicazione dell’uvaggio nel vino da tavola non sarà bene per il vino italiano”.
Insomma, se il successo del vino made in Italy è legato a doppio filo al territorio, la principale sfida ora non sembra venire dai latifondi di Australia o Sudafrica, ma dagli uffici di Bruxelles.

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