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La Repubblica

Terminator sull’Ararat ... Il ritorno di Annibale. Una domanda sotto il sole del Caucaso: ma perché mai Annibale volle costruire una città proprio qui, in capo al mondo? Dalle mappe è sparito, il suo nome è stato rubato. Poi, nelle prime luci del mattino, eccolo svettare il grande monte di Noé... Il gate “H 46” dell’aeroporto di Monaco è già Armenia profonda. Gli uomini dalle folte sopracciglia aspettano il volo della notte per Erevan con facce da guerrieri, fermi sulle loro Termopili, reduci da infiniti diluvi, abbarbicati alle loro montagne alle porte dell’Asia. Facce ossute, alla Aznavour, segnate da mille invasioni: Cimmerii, Sciti, Parti, Persiani, Tartari, Russi, Turchi. Parto con loro, perché anche Annibale andò su quelle montagne, e fu - nessuno se l’aspetta - l’unico ad andarci senz’armi. Un blitz il suo, una meteora. La resurrezione di un uomo che un giorno smise di fare la guerra e volle fondare una città: Artaxata, sotto le nevi dell’Ararat dove sbarcò Noè. L’aereo decolla nella pioggia sopra piccole luci azzurre, poi emerge come l’Arca su un mare di nubi illuminate dalla Luna. M’accorgo che tutto l’equipaggio è femminile; anche il pilota è una donna, una dea del terzo millennio che mi guida verso un chiarore in fondo ai secoli, in capo al mondo verso un’Atlantide perduta. Dove sto andando? Non esistono guide dell’Armenia nemmeno nelle fornitissime librerie di Monaco. Solo poche pagine, in volumetti sul Caucaso in generale. Sulle mappe l’Ararat è sparito: il monte-simbolo del Paese sta in territorio turco, a un passo dal confine, e i padroni gli hanno cambiato il nome, ribattezzandolo Buyukagri Dagi.
Li sento parlottare, gli armeni, con quella loro lingua crepitante di “R” e di “T”, mentre sotto di noi passano lenti i Balcani, il Bosforo, l’Anatolia. Ma quanta strada ha fatto Annibale? Ogni tanto, un’isola di luce come un segno zodiacale: uno scorpione, una lira, un granchio. Non so a che tempo appartengano, se siano cielo terra o mare, costellazione montagna o arcipelago, oppure un alfabeto assiro ingigantito, un lineare-B per tavolette d’argilla proiettato su dimensioni stellari. Poi l’ombra dell’Ararat chiarisce tutto, testone di drago color rosa-cenere nella prima luce del mattino. Odore di carburante e albicocche, polvere e montone. Nei chioschi già aperti le albicocche hanno lo stesso colore forte e lo stesso nome dell’alba; gli armellini lo stesso profumo e lo stesso nome dell’Armenia. Donne ex-sovietiche infagottate spazzano le strade ancora in ombra, poi la bruma si dissolve e la montagna di neve emerge, immensa, sui palazzi stalinisti di Erevan; immateriale su un materasso di vapori; dio vicinissimo e intoccabile, come il Sinai degli ebrei, segregato oltre i reticolati di quella che fu la cortina di ferro.
“La guardo e mi carico d’energia” esulta l’architetto Arà Zarian, respirando a pieni polmoni. Poi mi accompagna al museo archeologico tra tori di bronzo e poderose bipenni, carri solari dell’età del ferro e archi da guerra più antichi della guerra di Troia. Tutto emana forza: le barbe mesopotamiche nelle monete, certe teste coniche del mille avanti Cristo simili a quelle del Nemrut Dagi, soprattutto un focolare zoroastriano del terzo millennio, splendido, con gli alari a testa di montone. Il primo stato cristiano del mondo nacque da questa sovrabbondanza di energia barbarica segnata da roccia, acqua e fuoco. Arà è amico di Antonia Arslan, l’autrice del libro La masseria delle allodole sulla tragedia armena in Turchia; è stata lei a indicarmi questa guida coltissima e appassionata che mi aiuterà a ritrovare Terminator nel posto più lontano e impensabile della sua odissea. Mi insegna a scrivere “Hannibal” in alfabeto armeno, poi mi apre un testo di Plutarco. “Il re Artassa - c’è scritto - rimase contento dell’idea di Annibale e lo pregò di assumere lui stesso la direzione dei lavori. Sorse così un modello di città grande e assai bella che, assunto il nome stesso del re, fu proclamata capitale dell’Armenia”. La città di Annibale sorge su un arcipelago di colline basse, poco oltre il monastero di Khor Virap, sul punto d’incontro di tre colori: a Sud il bianco abbacinante dell’Ararat, a Est il verde smeraldo di un grande acquitrino coperto di canneti, a Ovest il giallo-polvere della steppa. Aveva 130 mila abitanti Artaxata, ed era segnata su tutte le carte dell’antichità.
Oggi il vuoto e il silenzio sono tali che sul lato verde, verso il fiume Mezamòr, sento il gracidar delle rane e il tuffo delle carpe tra i papiri, e sul lato giallo distinguo una per una le aggressive formiche armene muoversi con l’addome inarcato tra i cavalli di frisia. La cortina di ferro che qui - unico posto al mondo - nessuno s’è mai sognato di togliere. Maledetto africano, ci ha spiazzato ancora. Una domanda ci perseguita sotto il sole del Caucaso, in mezzo alle rovine coperte di origano e capperi rampicanti. Perché Egli volle costruire una città in capo al mondo? Perché non la progettò per se stesso ma per un re straniero? Camminiamo nel vento fra escrementi di mandrie verso grappoli di fazzoletti votivi annodati agli arbusti in cima alle colline. Cosa cercava Annibale su queste montagne? Forse niente di diverso da ciò che lo spinse a sfidare la morte in battaglia. L’immortalità della memoria. Ma se così è, forse c’era ancora Ercole, il suo mito, a indicargli la strada. Eracle uccisore di mostri e costruttore di città. “Andiamo un po’ sulle montagne, la vera Armenia è quella”, annuncia eccitato Zarian spingendo l’acceleratore della vecchia Zigulì su per una rampa desertica bestiale. Siamo subito soli tra montagne giallo-ocra e rosso-bauxite. Già Asia profonda: Persia, Hindukush, Amu Darija.
Gli armeni sentono come rabdomanti l’energia dei luoghi e qui la topografia del sacro è fittissima: in ogni gola, sotto ogni parete, c’è una chiesa medievale. Ahimé anche i confini sono onnipresenti - Karabakh, Iran, Turchia - come se una mano perfida li avesse disegnati apposta per suscitar discordie. Dopo un’oretta lasciamo la strada principale e prendiamo a destra una gola nascosta di nome Noravankh, un Eden di frescura, alberi da frutto e torrenti.
Da lontano arriva profumo di carne arrostita: è la casa di un pastore su una radura. Si chiama Vardges e ha due occhi neri accesi come braci. Sotto uno strapiombo ha sistemato tre tavoli di pietra sconnessa e prepara merende per i viaggiatori. Yogourth, formaggio, pomodoro e pane tipo “carta musica”. Una donna porta una brocca di terracotta con un rosso chiamato Arenì, denso come il sangue, che ci spinge subito in stato di estasi. Non ho mai bevuto niente di simile. E’ aromatico, dolce, amaro e frizzante nello stesso tempo. Sa di violetta e ciliegia e svela tutta l’anima della terra da cui proviene. Forse, penso, è l’archetipo del vino. La prima vendemmia di Noè. Il pastore mi chiede perché sono venuto. “Sto cercando un uomo chiamato Annibale, passato duemila anni fa”. “Ah - risponde - quello che ha fatto il giuramento contro Roma”. Resto di stucco. Un pastore che conosce Annibale, in Armenia. L’uomo mi guarda come per dire: ora devi dirmela la storia. Mi accorgo che anche il resto della famiglia sta aspettando che cominci.
C’è un silenzio che si taglia col coltello. Racconto la fuga da Cartagine, l’Oceano, i Pirenei, le Alpi, gli elefanti. Zarian traduce felice, Vardges porta altro vino, il piccolo Armen dai capelli rossi ascolta con occhi sbarrati. “Ma lui raggiunse il suo scopo?” chiede alla fine il pastore. “Sì - gli dico - se è vero che oggi parliamo ancora di lui. Annibale credeva solo nell’immortalità della memoria”. E poi: “Vedi Vardges, se quell’uomo non fosse esistito 2200 anni fa, noi non ci saremmo mai conosciuti”. Il pastore diventa serio di colpo. Si alza in piedi, versa a tutti altro rosso di Arenì, alza il bicchiere e inizia un lungo discorso sulle vie misteriose del destino. Chiama a raccolta Mosè, Elia, e tutti gli angeli raffigurati su un tappeto oro, rosso e albicocca appeso alla parete. Poi conclude: “Forse Lui non credeva in Dio, ma se non fosse stato in contatto con le stelle non avrebbe lasciato questa traccia”. L’ha evocato! E’ chiaro a tutti che l’ha evocato e la sua ombra è scesa tra noi per bere lo stesso vino. Il piccolo Armen è mortalmente serio, sua madre ha smesso di affettare mentuccia, il nonno dondola il capo come in un mantra. Tutti aspettano il brindisi.
“Che tu beva con me, Anush, e ciò che hai bevuto ti sia di gradimento”. E’ come se si rompesse una diga. Esplode l’allegria, arriva un agnello arrosto con cipolle e patate, tre nuovi ospiti bevono alla salute del focolare e giurano amore eterno per l’Armenia, poi raccontano di re Tigran il Grande e di Crasso decapitato dai Parti. Siamo ubriachi e felici. Ora anche Noè è tra noi, mentre scende l’ora dei grilli.

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