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Il Giornale

Dolceacqua e la sorpresa Rossese ...
Il più francese dei vini liguri frutto della passione di vignaioli che lavorano in condizioni estreme... I fiori, quelli di Sanremo
del festival, d’accordo.
Ma l’abbagliante vestito floreale
che la provincia imperiese
indossa nei giorni del
clamore mediatico impallidisce
se messo a sfilare accanto
al giacimento enogastronomico
che queste valli
di confine, ingentilite dalla
brezza di mare, schermate
da Alpi e Appennini che frenano
i venti del nord e solcate
da bei torrenti, sanno offrire
tutto l’anno a chi non
s’arresta alla superficie.
Certo, se il turista non scava
nel buono dell’Imperiese
la colpa è anche un po’ dell’indigeno,
diffidente per natura
e poco incline a mettere
in mostra prodotti superbi
dell’entroterra come il
carciofo di Perinaldo (senza
spine, fantastico crudo, al
forno o in umido), i fagioli di
Badalucco, Conio e Pigna
(presidio Slow Food, sublimi
se lessi e poi bagnati da
un goccio di extravergine
da locale oliva taggiasca), le
michette di Dolceacqua (dolcetti
da divorare in serie
che non hanno nulla a che
spartire col pane milanese)
o le tome di pecora brigasca
(ghiottissime, dagli sparuti
alpeggi di confine).
Unodei casi di sproporzione
più profonda tra anonimato
e bontà è quella
espressa dal Rossese di Dolceacqua,
Doc tra le meno
note d’Italia, eppure rosso
di sorprendente nobiltà e
austerità, soprattutto in
una regione in cui i vini tutto
sommato non spiccano
per struttura.
Intanto, la Val Nervia e la
Valle Crosia da cui spuntano
queste piante ad alberello
a bacca nera, a un chilometro
dal bagnasciuga di
ponente e fino a 600 metri
d’altitudine, sono una gioia
per gli occhi e lo spirito. Il
secondo pensiero è però di
preoccupazione e stima, viste
le pendenze sopra cui
sfacchinano i produttori di
Rossese. Uno che si danna a
infrangere il muro di silenzio
è il simpatico Maurizio
Anfosso, 38enne titolare
della piccola Ka Mancinè di
San Sartino di Soldano: per
ora 7.500 bottiglie l’anno divise
tra 3 etichette, tutte da
uve rossese: il fresco Beragna,
con quella nota leggera
di pietra focaia che va benissimo
per il coniglio olive
ma anche col pesce azzurro;
il Galeae, da uve surmature
che pendono da vigneti
ultracentenari e il piacevole
Sciakk-tra, rosè da rossese
vinificato in bianco.
Se i vignaioli del “più francese
dei vini liguri” da provare
sono comunque tanti
(vedi box), è curiosamente
uno solo, etichettato Testalonga,
il Rossese che ha deciso
di tenere in carta Barbara
Masieri, sommelier e
titolare col marito del ristorante
Paolo e Barbara, indirizzo
sanremese conosciuto
a ogni latitudine nazionale.
La fama è stata costruita faticosamente
in vent’anni di
voli estrosi ai fornelli, spiccati
da un “cuoco contadino
” molto bravo a guarnire
piatti contemporanei con
profumi vegetali in gran
parte forniti dalla sua azienda
agricola dell’Alta Val di
Nervia. Ovvero pomodori
cuore di bue, zucchine trombette
o erbe selvatiche come
tarassaco, pimpinella,
borragine. Tutti effluvi da
svenire che guarniscono
bianchetti, gamberi rossi,
ricci marini, oloturie o pesci
lama da pesca amatoriale
e, in periodo di caccia, colombacci,
tordi, beccacce o
anatre selvatiche.
Più a levante, davanti al
mare di Imperia, vince invece
la freschezza di Andrea
Sarri, cuoco, e Alessandra
Pesce, sala, del ristorante
Agrodolce, altra coppia
d’oro della cucina imperiese
attentissima a pescare solo
da mare aperto.E non necessariamente
da chilometri
zero (miglia marine zero?):
il Baccalà islandese
leggermente scottato con
crema di fave e limone candito
è tanto bello da scatenare
nel commensale la sindrome
di Stendhal. E i Cappellotti
ripieni di patate di
Caprauna con brodetto e
scampi al profumo di maggiorana
sono un inno ai profumi
di queste terre scandito
con ritmi precisi. Che non
sono certo quelli di un fanatico:
“Macché sempre alla
ricerca delle materie prime:
nei momenti di pausa
prendo la bici e vado in giro
per le valli”, spiega Sarri
simpatico.
In uno dei suoi ciclotour il
cuoco potrebbe allora pedalare
di nuovo dalle parti di
Dolceacqua, fino ad Apricale,
uno dei più bei borghi
medioevali d’Italia. Qui il risvolto
goloso non è inferiore
a quello architettonico:
al Piccolo Birrificio, tra carrugi
in pietra, il mastro birraio
Lorenzo Bottoni utilizza
solo orzo, cereali, spezie
e frutta di produzione locale
per dar forma a una serie
di splendide birre crude. Anzi,
nude come le Nüa bionda,
di grano e ambrata, un
trittico rafforzato in stagione
da una serie di altre birre
di produzione circoscritte
nel tempo come la Seson:
fresca, particolare, è affinata
in botti di chardonnay
con l’utilizzo di scorze di chinotto.

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