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Corriere Della Sera

Dal caso Brunello risorge il vino toscano ... Biondi Santi, Soldera, Folonari: la qualità abita qui... Rosso, corposo, di carattere, il vino toscano mantiene fede a caratteristiche ben consolidate nel tempo, anche se la sua evoluzione ha subito, negli ultimi anni, non più di uno scossone. Il caso Brunello ha gettato nello sconforto i fautori della qualità, traditi da un marketing aggressivo e da un prodotto, che, a parte Biondi Santi, Soldera e pochi altri, non sempre i 250 produttori dell’area senese di Montalcino, sono riusciti a mettere in bottiglia. Lo schiaffo morale di Gianfranco Soldera, ex broker divenuto produttore di qualità, ai suoi vicini di giardino, ha messo il dito nella piaga: produrre Sangiovese, in bottiglia, non è da tutti. Eppure tra Brunello, Riserva e Rosso si superano 12 milioni di bottiglie prodotte. Di queste, il 62% per cento è destinato all’export, il 25% al mercato americano. Una fetta di quell’84% di rosso prodotto in una delle regioni più vocate, alle ragioni della vite. La terza via dopo, Veneto e Piemonte, con un export in calo dell’1,8%, ma pur sempre attestato su circa 400 milioni di euro complessivi. Gli oltre 60 mila ettari di vigneto comprendono, naturalmente, altre aree che, più o meno, hanno sofferto, e soffrono, la crisi, dei mercati internazionali, più di quello nazionale. La difficile ripresa del Chianti classico, l’area d’oro tra Castellina, Radda e Gaiole, resiste in virtù di logiche minimaliste: poche bottiglie, di qualità, firmate da enologi-star, sempre più consulenti e sempre meno in cantina. La forbice, tra Chianti Docg e Chianti classico Docg, è un ombrello che non sempre aiuta a individuare la strada più corretta verso il vino di qualità. “Un mare di bottiglie non sempre facilmente individuabili”, ammette Renzo Cotarella, direttore generale di Antinori. Se poi si aggiunge l’impasse della terza via, il Nobile di Montepulciano, il gioco, tutto in salita, è fatto. Doc e Docg si prendono il 62% della produzione di questa regione, il 26% è Igt, l’indicazione geografica di territorio, e il 12% è vino da tavola in caduta libera. Per questo alcune cantine insistono sul tasto, a più voci, cercando di scuotere un mercato latente, generalizzato comunque in tutt’Italia; volumi, visibilità, qualità, immagine, marketing, non bastano, forse più, per vendere bottiglie. Si cercano nuove vie nelle aree di Bolgheri e nella Maremma, anche se certe tipologie, leggasi Morellino, non hanno convinto chi era sicuro di un successo scontato. Chi può, si diverte e rilancia, mettendo negli scaffali nuove erichette. Il caso della Ruffino, di proprietà di una parte della famiglia Folonari, uscita di recente con “Urlo”, prodotta nella zona di Murlo, tra Montalcino e Grosseto. No Sangiovese, ancora un blend (Cabernet Sauvignon, Petit Verdot, Alicante e Merlot), voluto da Adolfo e Luigi Folonari, creato dall’enologo Carlo Ferrini. E ancora “Coevo”, etichetta dei fratelli Andrea e Cesare Cecchi, un altro Igt, a base Sangiovese e Cabernet Sauvignon, provenienti dalle vigne di Castellina, nel Chianti classico e Merlot e Petit Verdot, allevati in Maremma. Per arrivare ai vent’anni di “Saffredi”, ultima annata 2006, il Supertuscan voluto dalla fattoria Le Pupille, e dall’ostinazione di Elisabetta Geppetti, produttrice maremmana, che fortemente ha creduto in questo blend, seguito, nel passare delle stagioni, da enologi del calibro di Giacomo Tachis, Riccardo Cotarella, sino al francese Chistian Le Sommer. Biglietto da visita dì qualità, con appena 23 mila bottiglie prodotte. Ma basteranno questi casi per scuotere l’immobilismo dei vari Consorzi?

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