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ROSAUTOCTONO

Il rosè italiano e una cultura da costruire. Mentre i consumi calano in Italia, e crescono nel mondo

I messaggi di “Italia in Rosa”, a Moniga del Garda. Il Miglior Rosato d'Italia? Il Chiaretto Valtènesi Molmenti 2015 di Costaripa

“Creare la cultura del vino rosa in Italia”. Anche per rilanciare i consumi di un tipo di vino che fa parte della storia del Belpaese, ma che, in controtendenza al resto del mondo, vede diminuire i brindisi rosè nella Penisola. È l’ambizione e la sfida di Rosautoctono, l’Istituto del Vino Rosa Autoctono Italiano, ribadita da Alessandro Luzzago, presidente del Consorzio Valtènesi, a Villa Galnica di Puegnago del Garda, ad Italia in Rosa, nei giorni scorsi, a Moniga del Garda.
Una sfida non facile per il neonato Rosautoctono, che riunisce sei Consorzi di denominazioni in cui storicamente si producono vini rosa da uve autoctone -Valtènesi, Chiaretto di Bardolino, Cerasuolo d’Abruzzo, Castel del Monte, Salice Salentino e Cirò - perché l’Italia è in netta controtendenza circa il consumo dei rosati. “In Italia - ha sottolineato a questo proposito Franco Cristoforetti, presidente dell’Istituto e del Consorzio del Chiaretto di Bardolino - c’è una leggera flessione dei consumi: eravamo al 6% e siamo scesi al 5,5%. Troppo poco rispetto alla media mondiale del 10%, a cui vogliamo arrivare, e ancor di meno rispetto al 34% della Francia. Dobbiamo ripartire da qui, da questi territori di produzione ora uniti da un linguaggio univoco che può far crescere la reputazione sia sul mercato interno sia su quelli internazionali”.

I sei consorzi di Rosautoctono - 25 milioni di bottiglie in totale - rappresentano le sei sfumature di rosa di denominazioni che hanno puntato sui loro vitigni storici senza appiattirsi sugli internazionali e portano significativamente il nome del proprio territorio.
“Parliamo la stessa lingua da Nord a Sud - ha continuato Cristoforetti - e vogliamo accompagnare i consumatori in un viaggio in tutta Italia. Vogliamo parlare di vini rosa attraverso promozione, formazione e ricerca. Per fare questo ci vogliono grandi mezzi di cui i Consorzi non dispongono, quindi stiamo cercando la formula migliore per reperire fondi. Ci siamo già presentati insieme a Prowein e Vinitaly e ora stiamo cominciando a lavorare con masterclass e degustazioni in collaborazione con le associazioni di categoria dei sommelier, ma anche strutturando l’Istituto perché sia in grado di organizzare e sostenere un’attività di ricerca che deve avere come scopo fondamentale l’identità territoriale dei nostri vini rosa. Nel primo cda a Moniga del Garda, in cui abbiamo definito l’agenda dei prossimi anni, è emerso uno spirito di collaborazione che rende bello e utile il confronto tra le diverse filiere produttive di una categoria per tanto tempo sottorappresentata”.
In realtà qualcosa si muove anche in Italia a partire da questo raggruppamento consortile, unico nel suo genere, per arrivare all’istituzione del premio al Miglior Vino Rosato d’Italia della guida Gambero Rosso 2019, riconosciuto al Chiaretto Valtènesi Molmenti 2015 di Costaripa, la cantina di Mattia Vezzola (anche consulente enologo della griffe del Franciacorta Bellavista, ndr).
È evidente che, viste le differenze tra vitigni, territori e tecniche, uno stile unico di vino rosa italiano non possa esistere, come pure che sia necessario rafforzare l’identità di ognuno dei vini rappresentati in Rosautoctono. Certamente importante è che ognuno ricerchi la propria identità e trovi le chiavi di lettura più consone per raccontarsi.
Esperienza recente in questo senso è la “Rosé Revolution” messa in atto dai produttori del Chiaretto di Bardolino, che nell’arco di qualche anno ha allineato la maggior parte della produzione su una interpretazione condivisa, per colore e profilo aromatico, che ha fatto crescere numeri e mercato e punta a definire i vigneti destinati al vino rosa della sponda veronese del Garda, differenziandoli da quelli destinati al Bardolino rosso.
Altro esempio è la ricerca quinquennale (2013-2017) sulla caratterizzazione del Valtènesi affidata dal Consorzio al Centre du Rosé di Vidauban in Francia, i cui risultati sono stati presentati a Italia in Rosa. “Nel periodo di osservazione - ha illustrato Nathalie Pouzalgues - i produttori hanno lavorato molto sulla maturità delle uve, il colore si è costantemente scaricato, la diversità tra i vini si è ridotta tendendo verso colori sempre più chiari, seguendo un’evoluzione del miglioramento della vinificazione con meno ossidazione”. Per quanto riguarda l’analisi sensoriale, effettuata negli ultimi tre anni del progetto, produttori, enologi e sommelier del territorio sono stati chiamati a individuare con un punteggio da 0 a 10 la rappresentatività dei singoli campioni rispetto all’identità del Chiaretto Valtènesi. La maggior parte dei campioni è stata giudicata essere un “buon esempio” e dall’incrocio con i giudizi di analisi sensoriale del panel del Centre du rosé è emerso che essi si caratterizzavano per miglior maturità, rotondità, equilibrio, con una generale sensazione di “succosità”, seppur in presenza di residuo zuccherino molto contenuto (tra 4-5 grammi per litro) grazie a una alcolicità relativamente sostenuta, e di freschezza per l’acido malico presente a fronte della malolattica non svolta. “Dobbiamo lavorare sui descrittori - ha concluso Nathalie Pouzalgues - non solo dal punto di vista della traduzione, ma proprio da quello delle sensazioni che descrivono, allineando il panel del Centre che, pur specializzatissimo, è “tarato” sulle produzioni francesi”.
Ma questa “fotografia” del Chiaretto Valtènesi rischia di essere poco fedele. Esistono vini giocati sulla sapidità, molto apprezzati, differenti rispetto alla carta di identità uscita dallo studio. Vini che stanno disegnando una sfumatura identitaria diversa che sfugge per una certa distanza, peraltro fisiologica, tra la percezione dei produttori, i miglioramenti della tecnica e il cambiamento dei mercati.
“D’altra parte - ha spiegato Gilles Masson, direttore del Centro di Ricerca Provenzale - la questione dell’identità è fondamentale, il lavoro molto lungo e soprattutto senza un punto di arrivo definitivo perché i vini, i mercati e i consumatori cambiano costantemente. E poi non è rilevante solo l’obiettivo, ma il percorso che si fa. È la cosa più importante perché si impara una lingua comune per produrre e comunicare un vino e la sua storia comune”. E non a caso in Provenza, dove lavorano sui vini rosa da 20 anni, ad oggi il 90% dei vini ha l’“air de famille” provenzale, cioè una identità uniforme (e non uniformata). Il grande pericolo da affrontare oggi è il cambiamento climatico in particolare per i vini rosa. Le temperature troppo elevate mettono a rischio le loro caratteristiche di freschezza, frutto e colore. Inoltre i vini devono restare rosa evitando di scaricarli troppo di colore creando confusione con i vini grigi o addirittura bianchi. Il successo del rosa scarico è dovuto al fatto che un colore chiaro suggerisce che il vino sia leggero, da bere fresco e facilmente e - ha sottolineato scherzosamente Masson - all’esistenza di una regione che è riuscita ad abbinare al colore chiaro la qualità di gusto e struttura!”.
A Italia in Rosa è stata presentata la nuova immagine del Consorzio Valtènesi che ha comportato oltre un anno di lavoro di una apposita commissione consortile. La traduzione in immagini dei cinque punti centrali del Valtènesi - il vitigno Groppello, il metodo produttivo, il patto tra le generazioni, il territorio e lo stile del buon vivere gardesano - è stata affidata alla matita di Gianluca Folì, illustratore di fama internazionale. Niente foto, ma personaggi, di un’epoca indefinita, vestiti i cui abiti in trasparenza raccontano concetti, luoghi e sensazioni.

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