“Ogni azienda ha un pensiero sulla qualità che si esprime nella ricerca di una “stella” enologica, quel vino in cui si mette il cuore. E qui due mondi si scontrano, quello della creatività consentita dalle Igt e quello delle regole dei disciplinari delle Doc”. Così Davide Gaeta, docente di economia all’Università di Verona (ed amministratore della cantina della Valpolicella Eleva, con l’enologa Raffaella Veroli), ha stimolato ad un confronto, nella sua cantina, sul valore innovativo di vini “oltre le regole” delle Denominazioni, tema quanto mai attuale sotto ogni aspetto (compresa la riflessione sull’attualità o meno delle “commissioni di assaggio” lanciata da qualche tempo del Slow Wine, ndr), che riflettono una visione del produttore, con Maurizio Ugliano, professore di enologia dell’Ateneo veronese, e due produttori “puristi” delle Doc, Marco Sartori di Roccolo Grassi, griffe della Valpolicella, e il produttore ed enologo Mattia Vezzola di Costaripa, cantina simbolo della Valtènesi - “come d’altra parte purista ero io - ha sottolineato Gaeta - prima di produrre il nuovo vino Igt Veneto che abbiamo chiamato appunto “Cercastelle”. Vino che lungi dal voler proiettare Eleva fuori dalle denominazioni della Valpolicella, valorizza in blend un vitigno locale (Oseleta) ed uno internazionale (Merlot) che Franca Maculan, fondatrice dell’azienda (per lascito testamentario donata ad un ente benefico, ndr) aveva piantato sulle 28 terrazze che insistono sui 6 ettari accorpati dell’azienda.
“Considerando che il 60% del vino mondiale è prodotto in Paesi extra Ue che non usano appellazioni o le usano in modo differente - ha proseguito Gaeta - è lecito chiedersi se Doc e Igt possano convivere sullo stesso territorio o se serva “revisionare” il loro rapporto”. “Fin da quando ho iniziato nel 1996 - ha raccontato Marco Sartori, dell’azienda di Mezzane di Sotto - ho scelto di lavorare in ambito Doc. La fortuna dei vini Valpolicella, in particolare dell’Amarone, mi ha aiutato ad emergere. Ho sperimentato per migliorare la qualità, per esempio destinando vigneti diversi al Valpolicella all’Amarone, al fine di far crescere l’azienda e al contempo il territorio. La nascita dei Supertuscan e l’uscita di produttori importanti dai Consorzi per potersi esprimere in modo nuovo mi aveva molto colpito e fatto balenare il desiderio di fare un’Igt”.
A proposito del fenomeno Supertuscan, che ha avuto il grande merito di portare alla ribalta internazionale i vini italiani, il docente di economia all’Università di Verona (ed amministratore della cantina della Valpolicella Eleva, con l’enologa Raffaella Veroli) Davide Gaeta ha ricordato come, nel Chianti Classico, è stata risolta la “diaspora” dalla Doc di aziende blasonate, come Fontodi e Pergole Torte, essendo lui coinvolto, all’epoca, come consulente del Consorzio del Gallo Nero. “Il “riaggiustamento” della piramide qualitativa con l’introduzione al vertice di una nuova categoria, la Gran Selezione, con criteri di produzione più stringenti, ha fatto rientrare nella Doc alcuni produttori. La soluzione non fu accolta con favore - ha commentato Gaeta - ma i fatti hanno dato ragione alla scelta. I disciplinari delle Denominazioni fissano nel dettaglio le regole di coltivazione, salvo poi decidere di stravolgerli in una notte quando si vuole. Questo fa supporre che possano essere resi più elastici ed inclusivi”.
Elasticità di cui da più parti si sente la necessità, ma non al punto da “includere” vini che nascono con una filosofia differente, alla base della loro stessa classificazione Igt. “Ho continuato sulla strada delle Doc - ha proseguito Marco Sartori della griffe della Valpolicella, Roccolo Grassi - perché credo nei Consorzi di tutela come enti di mediazione tra le posizioni dei diversi attori del territorio, che, a volte, hanno interessi contrastanti. E nella funzione della Doc nel conferire identità forti ai vini”. Identità che si misurano con la “grandezza” di un vino.
“Il grande vino deve avere tre caratteristiche - ha detto Mattia Vezzola della tenuta di Moniga del Garda, raccontando una conversazione con Denise Dubourdieu, che è stato uno tra gli enologi più importanti al mondo. Deve costare molto e da 200 anni, a testimonianza che il mondo intero lo reputa grande. Deve provenire da viti passate di padre in figlio per tre generazioni che le hanno migliorate con almeno tre cicli di selezione genetica. E, infine, il grande vino deve avere la capacità di mantenere la propria identità molto a lungo negli anni”. Sicuramente queste condizioni concorrono a produrre un grande vino, insieme a molte altre, ma se fossero le uniche in Italia non ne avremmo molti, o almeno molti di meno rispetto a quelli che abbiamo. Altre strade da percorrere, e in meno di 200 anni, possono condurre al “vino stella”. Vocazionalità del territorio, gestione viticola finalizzata all’equilibrio vegeto-produttivo della vite, età e “qualità genetica” delle piante, insieme al savoir faire sono gli ingredienti principali indispensabili. “La sfida - ha commentato il produttore ed enologo Mattia Vezzola - è fare un vino sempre coerente con se stesso senza cambiarlo per stare dietro ai mutamenti del gusto. Una prerogativa che spesso viene disattesa quando aziende storiche passano di mano: il vino è buono, ma diverso, e il prezzo rimane lo stesso. Se nell’ambito di una Doc si vuole trasferire al consumatore il valore del proprio lavoro bisogna stare alle regole del gioco. Una buona viticoltura e il miglioramento della genetica delle viti in funzione del proprio obiettivo enologico sono essenziali. In Champagne e in Borgogna si coltiva lo stesso vitigno, lo Chardonnay, ma con caratteristiche diverse e adeguate ai due vini”. L’uva deve avere in sé caratteristiche ed elementi che contribuiscono a creare il “vino stella”.
“Questo è il punto di partenza ineludibile - ha sottolineato Maurizio Ugliano - diversamente è necessario ricorrere ad una enologia interventista nemica dell’eccellenza. Il vino che aderisce all’espressione di un territorio, ad un’idea collettiva di tipicità avrebbe bisogno di essere ben raccontato. Invece, nei disciplinari, ricorrono descrizioni organolettiche paradossali, come “vinoso” o “franco”, o vengono indicate note poco credibili come quella di ciliegia, che nel vino non esiste perché è uno dei frutti meno o affatto profumati. Lo Chablis è associato alla mineralità, per quanto questo descrittore possa essere discutibile. I Sauvignon della Loira si caratterizzano per il fumé. Ecco che perché una denominazione possa svolgere il suo ruolo anche nel racconto univoco e originale del vino ci vuole uno sforzo da parte di tutti, anche della comunità scientifica. Così potremmo valorizzare anche la nostra grande biodiversità viticola che non ha eguali”.
“Però - ha aggiunto il produttore Marco Sartori (Roccolo Grassi) - non abbiamo il coraggio di svecchiare i disciplinari che potevano andare bene negli anni Sessanta del Novecento, agli albori della nascita di molte Doc. Dobbiamo tornare a fare selezione massale ed a valutare in modo corretto i millesimi. La grande annata esiste se ci sono anche quelle piccole. La nostra storia enologica è breve. Il vino italiano ha bruciato le tappe: in poco tempo ha conquistato i mercati internazionali e per farlo ha anche dovuto assecondare i gusti dei consumatori. Nell’Amarone, per esempio, lasciando elevati residui zuccherini e usando vitigni che lo rendessero più piacione. Oggi dovremmo avere la maturità per riappropriarci di uno stile più vicino alla nostra identità e siamo facilitati dall’accettazione da parte dei consumatori di vini meno colorati e opulenti”.
Corale il richiamo alla necessità di una ricerca finanziata e coordinata anche con i Consorzi di tutela sempre più urgente per la pressione del cambiamento climatico che rende inadeguate anche varietà molto diffuse; ed ancora di una maggiore coscienza civica di appartenenza ad un territorio a tutela dei suoi prodotti e dell’ambiente. “Una ulteriore sfida - ha concluso il professore di enologia dell’Ateneo di Verona, Maurizio Ugliano - è comprendere in che rapporto stanno tra loro elementi che compongono il valore di una bottiglia. Lo sforzo deve andare oltre il miglioramento della qualità intrinseca e dell’assaggio del vino, ad innestare aspetti umanistici al di là di Doc e Igt. La qualità spiegata e tangibile rende il prezzo insindacabile”.
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