02-Planeta_manchette_175x100
Consorzio Collio 2025 (175x100)
OPINIONI

“L’ingresso della “cucina italiana” nel pantheon dei patrimoni dell’umanità. Una vittoria? Forse”

Lo scrive il professor Alberto Grandi, secondo il quale hanno vinto “la cartolina” e “un’idea rassicurante e turisticamente redditizia”
ALBERTO GRANDI, CUCINA ITALIANA, PATRIMONIO UNESCO, STORIA DELL’ALIMENTAZIONE, UNIVERSITÀ DI PARMA, Non Solo Vino
Il professor Alberto Grandi

“Ogni passione veramente profonda contiene in sé il suo contrario”, scriveva il maestro del giornalismo enogastronomico italiano, Mario Soldati. E, come sempre accade, e come è giusto che sia, non si può essere sempre tutti d’accordo e pensarla allo stesso modo, anche su un fatto storico come il riconoscimento della cucina italiana a Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità da parte dell’Unesco. E, in effetti, proprio per la sua importanza il dibattito è fondamentale per riflettere, soprattutto in un’ottica futura, per potersi sempre migliorare specie d’ora in avanti che il valore del riconoscimento dovrà - per forza - riflettersi nella realizzazione di ogni piatto, ovunque e dovunque, e che, in un’ottica di comunicazione, puntare sulla qualità che contraddistingue la tavola italiana, di cui il vino è il compagno più fedele, sarà sempre più fondamentale per tornare ad avvicinare le persone, e i giovani in particolare, alla convivialità e alla socialità che le ruota attorno. Per Alberto Grandi, professore di Storia dell’alimentazione e Storia dell’integrazione europea all’Università di Parma, la cucina italiana è Patrimonio Unesco “ma per le ragioni sbagliate”, come ha scritto, all’indomani del riconoscimento e dell’euforia generale, sui media italiani e non solo - da un editoriale sul quotidiano “Domani” alle colonne del “The Guardian” - l’autore di oltre 50 saggi e articoli scientifici in Italia e all’estero, tra i quali spiccano i best sellers “Denominazione di Origine Inventata” (Mondadori, 2018) e “La cucina italiana non esiste. Bugie e falsi miti sui prodotti ed i piatti considerati tipici” con Daniele Soffiati (Mondadori, 2024).
Per Alberto Grandi “abbiamo scelto la strada più facile: imbellettare un’idea rassicurante e turisticamente redditizia, come se fosse un’unica tradizione millenaria. Una cucina che, paradossalmente, non è mai esistita. Una grande occasione mancata. Potevamo presentarci al mondo con la nostra verità: un racconto di miseria, ingegno, improvvisazione, migrazioni e ricostruzioni continue. Abbiamo preferito la cartolina”, ha scritto su “Domani”, domandosi se “l’Italia ha finalmente ottenuto ciò che rincorreva da anni: l’ingresso della “cucina italiana” nel pantheon dei patrimoni immateriali dell’umanità. Una vittoria? Forse. Sicuramente un sollievo, soprattutto per quella parte del paese che da tempo soffriva di una sottile, persistente sindrome d’inferiorità culinaria. Non nei confronti degli Stati Uniti, si capisce, ma verso i due modelli che da sempre popolano il nostro immaginario gastronomico: la Francia e il Giappone. Le loro cucine, già riconosciute dall’Unesco nel 2010 e nel 2013, continuavano a insinuare un tarlo fastidioso nella mente dei nostri gastronazionalisti: se l’alta cucina “vera” era quella francese e se il Giappone rappresentava l’apice della purezza rituale, noi che cosa avevamo da opporre, oltre al solito repertorio di paste, sughi e litigi su come si fa davvero la carbonara? Così restavamo affacciati alla finestra, con il cappello in mano, nell’attesa che l’Unesco si decidesse a ricordarsi dell’Italia e delle sue modernissime e sempre più ottuse dispute gastronomiche, più che delle sue tradizioni”.
Ma per il professore non è affatto così: “la verità è che avremmo potuto rivendicare la nostra unicità con orgoglio. La nostra storia alimentare è meno lunga e meno codificata di quella francese, meno ritualizzata di quella giapponese, ma forse per questo più epica: un racconto di miseria, ingegno, improvvisazione, migrazioni e ricostruzioni continue. Una storia spesso fanfarona, certo, come solo gli italiani sanno essere, ma autentica. Invece abbiamo scelto la strada più facile: imbellettare un’idea rassicurante e turisticamente redditizia di “cucina italiana” e presentarla all’Unesco come se fosse un corpo coerente, un’unica tradizione millenaria, trasmessa con solennità da generazioni di nonne onniscienti. Una rappresentazione che non ha nulla a che vedere con ciò che abbiamo mangiato per secoli, né con ciò che mangiamo oggi e soprattutto che non ha nulla che vedere con il rapporto col cibo degli italiani di ieri e di oggi”.
Per questo, secondo Grandi, “è, in fondo, una forma aggiornata di autoesotizzazione: ci piace talmente tanto essere guardati attraverso la lente dell’oleografia che finiamo per crederci anche noi. Ed ecco allora la “dieta mediterranea” trasformata in marchio di qualità universale; ecco il mito del chilometro zero, del territorio, dell’autenticità; ecco il ritorno ossessivo della tradizione come parola-totem buona per ogni stagione, ogni talk show e ogni campagna elettorale. Che il riconoscimento arrivi proprio ora non è un dettaglio. In un Paese in cui la politica ha fatto della tradizione un’arma identitaria - dalla crociata contro gli insetti alla diffidenza verso la carne coltivata - l’Unesco cade come una colata di burro sui rigatoni. Perfetto per raccontare un’Italia rassicurante, immobile, saldamente ancorata alla sua cucina “di sempre”. Una cucina che, paradossalmente, non è mai esistita”, ribadisce il professore.
E lo fa ricordando che “nei secoli in cui la Francia costruiva la sua haute cuisine e il Giappone codificava i suoi riti gastronomici, gli italiani emigravano, facevano la fila per un pezzo di pane bianco, sognavano l’abbondanza più che la tradizione. La nostra grande epopea culinaria è tutta novecentesca: l’industria alimentare, l’arrivo del frigorifero, la televisione, Carosello. È lì che nasce l’Italia che oggi esportiamo come se fosse un’eredità immutabile, e non una brillante invenzione del boom economico. Non è un male, anzi. È un racconto straordinario, umano, perfino commovente. Ma non è quello che abbiamo consegnato all’Unesco. Abbiamo preferito la via del marketing: l’Italia delle tavolate di famiglia con le tovaglie a quadri, del basilico sempre fresco, delle nonne immortali. Un’Italia che ci illude di essere depositari di un sapere ancestrale, quando la verità è che il nostro genio, come scriveva Leopardi riflettendo sulla natura umana, nasce spesso dalla mancanza, dalla fame, dal bisogno di cavarsela”.
E “allora sì, abbiamo ottenuto il riconoscimento - conclude Alberto Grandi, nel suo editoriale sul quotidiano “Domani” - ma non per ciò che siamo davvero: un paese che ha trasformato le sue fragilità in creatività, il suo passato di privazioni in una narrazione di successo planetario. No, lo abbiamo ottenuto per ciò che vogliamo che gli altri vedano. Abbiamo chiesto all’Unesco di consacrare non la nostra storia, ma il nostro autoritratto migliore. Una grande occasione mancata. Potevamo presentarci al mondo con la nostra verità: corta, accidentata, contraddittoria, ma epica. Abbiamo preferito la cartolina. E come tutte le cartoline, rischia di finire presto nel cassetto, mentre la storia, quella vera, continua a chiedere di essere raccontata”.

Copyright © 2000/2025


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2025

Altri articoli