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Affari & Finanza / La Repubblica

L’alimentare guadagna sempre meno ... «È tutto un mondo che si è messo in vendita. Peccato che ora ci siano pochi compratori pronti ad acquistare». Parola di Gianni Tamburi, banchiere d’affari, fondatore della Tamburi & Associati, che sintetizza così la situazione dell’industria alimentare made in Italy. D’altronde sul mercato c’è un grande affollamento di marchi e di aziende. Si sa, ad esempio che il colosso americano Heinz vuole cedere Scaldasole, il numero uno dello yogurt biologico. Ma è in cerca di un acquirente anche la Yomo controllata dai fratelli Vesely. Per non parlare delle aziende exCragnotti dove spiccano marchi come Del Monte, Cirio, De Rica, Bertolli.
Parmalat, a parte, quindi, sono tanti i brand in difficoltà. E non si tratta solo di latte e latticini. Oggi, infatti, sembra proprio che far soldi con la pasta o con i salumi, con il vino e con l’olio sia diventato sempre difficile. Anche un imprenditore accorto come Giulio Malgara, ad esempio, ha deciso di ridurre il suo perimetro di business vendendo la Negroni prima e successivamente l’Olio Cuore. Lo stesso Barilla non ha vita facile nel risanamento della tedesca Kamps che si sta rivelando più difficile del previsto. Quanto a Ferrero, ai primi posti dell’hitparade europea del dolce, sono in pochi a scommettere che nel 2003 confermerà i buoni risultati di bilancio dell’anno precedente. E allora?
«Quello che sta accadendo nel settore alimentare», spiega Tamburi, «è purtroppo molto semplice. Da una parte la grande distribuzione punta a dilazionare sempre più i pagamenti, mentre dall’altra le aziende di marca stanno subendo la concorrenza delle "marche private" dei supermercati stessi». Se a questa diagnosi aggiungiamo la crisi dei consumi lo scenario è completo. D’altronde basta fare un giro fra i banconi di un qualsiasi supermarket per rendersi conto della situazione: le "marche private" stanno scacciando dalle posizioni migliori i brand più blasonati.
Ce n’è abbastanza, dunque, per spiegare i motivi di alcune crisi aziendali come quella della Yomo, un nome che da mezzo secolo s’identifica con l’immagine dello yogurt in Italia, ma anche un’azienda che ha chiuso il 2003 con perdite stimate attorno ai 10 milioni di euro (un’altra decina di milioni era stata bruciata nel 2002) su 240 milioni di giro d’affari. Si tratta inoltre di un gruppo esposto per circa 80 milioni con le banche che premono per una soluzione positiva: la vendita oppure l’ingresso di un nuovo socio capace di mettere mano al portafoglio per rilanciare l’azienda risanando la situazione finanziaria. Una conclusione che sta a cuore soprattutto a Banca Intesa, che ha avuto in pegno dalla famiglia Vesely il 94 per cento del pacchetto azionario della Yomo stessa.
Fino ad oggi al capezzale di Yomo, assistito dall’advisor Abaxbank si sarebbero succeduti diversi candidati internazionali, dalla francese Yoplait alla svizzera Emmi. In pista ci sarebbero anche dei partner finanziari. Ma per adesso i contatti non sono ancora sfociati in un accordo.
È dunque impossibile far profitti nel settore alimentare in Italia? Per fortuna ci sono delle importanti eccezioni. Emblematico il settore degli alcolici con Campari e Branca che macinano utili. Mentre nel comparto del latte la vicenda Granarolo conferma che una società ben gestita, capace di equilibrare prudenza nella gestione con l’innovazione di prodotto può ottenere buoni risultati. E candidarsi all’acquisto di quei «rami d’azienda» di Parmalat nel segmento del latte fresco che si trovano in Italia. «A patto che queste operazioni», osserva Luciano Sita, presidente della Granarolo, «vengano approvate dall’Antitrust».
In ogni caso Granarolo punta soprattutto sulla cresciuta interna. Nel 2003 l’azienda ha fatturato 720 milioni (circa 685 milioni nel 2002) con una ventina di milioni di utili prima delle tasse. Un traguardo raggiunto migliorando la posizione finanziaria netta da 177 milioni nel 2002 a 167 milioni nel settembre 2003 e ristrutturando il debito con l’azzeramento dell’esposizione a breve.

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