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Affari & Finanza / La Repubblica

Vino italiano, la "sbornia" è finita ... Crisi, euro forte, denominazioni in pericolo e concorrenza australiana sempre più agguerrita: dopo anni di straordinari successi nel mondo il vino toscano è costretto ad affilare le armi e ad elaborare nuove strategie per affrontare un mercato mondiale sempre più difficile. I consumi stanno calando ovunque, salvo negli Stati Uniti e in Estremo Oriente. A Bruxelles il Comitato di gestione ha dato l’ok alla Commissione europea per modificare il regolamento che protegge 17 importanti denominazioni di vini. Solo in Toscana ci sono il Brunello, il Nobile, il Morellino e il Vinsanto. Una porta aperta verso una futura liberalizzazione che permetterebbe ai produttori di paesi extraeuropei di usare queste denominazioni. In pratica potrebbero nascere il Brunello australiano e il Vinsanto argentino. In Toscana c’è stata una levata di scudi. «Mi associo pienamente alla protesta. Le denominazioni italiane vanno tutelate contro le omologazioni», ha dichiarato il ministro delle Politiche agricole Gianni Alemanno che ha incontrato la settimana scorsa i responsabili dei Consorzi Chianti Classico, Nobile di Montepulciano e Brunello di Montalcino a Firenze.
La buona notizia è che sono iniziate la settimana scorsa le degustazioni dei vini del 2003 e che i risultati sembrano essere molto promettenti. La lunga estate arida e torrida ha dato meno uva, con molti grappoli da scartare, ma gli esperti di tutto il mondo che si sono dati appuntamento alla Stazione Leopolda di Firenze per l’anteprima del Chianti Classico 2003, portavano stampato in volto un sorriso soddisfatto.
«Come abbiamo visto già da noi, a Badia a Coltibuono, il 2003 sta dando dei vini molto buoni, molto maturi, con dei profumi intensi e dei bei colori», dice Emanuela Stucchi Prinetti, ex presidente del Consorzio Chianti Classico. «Sono dei vini grandissimi», sostiene Giovanni Manetti, proprietario assieme al fratello Marco dell’azienda agricola Fontodi. «Soprattutto nel territorio del Chianti Classico, dove le altitudini piuttosto elevate hanno permesso ai vigneti di non soffrire eccessivamente a causa del gran caldo, i vini si stanno rivelando ricchi, equilibrati, profumati e con un grande potenziale di invecchiamento».
Giovanni Ricasoli Firidolfi, eletto da poco presidente del Consorzio Gallo Nero e proprietario dell’azienda agricola Castello di Cacchiano a Gaiole in Chianti, fa notare che mentre il consumo mondiale pro capite di vino continua a diminuire, salvo negli Stati Uniti, con un modesto aumento del 7 per cento e in Estremo Oriente dove è salito di oltre il 70 per cento (ma i volumi iniziali erano davvero esigui), nel corso degli anni Novanta l’Europa ha ridotto le superfici vitate del 14 per cento. Il problema però è che nei nuovi mondi è scoppiata la febbre della viticoltura. «In Australia l’incremento è stato del 138 per cento, passando da 60mila a 143 mila ettari», spiega Giovanni Ricasoli. «Mentre negli Stati Uniti l’incremento è stato del 25 per cento. Il Sud America ha aumentato le superfici vitate del 4 per cento e nella sola Cina, tra il 1995 e il 1999, sono stati piantati a viti più di 100mila ettari».
«Il prossimo futuro non può che riservarci un fortissimo aumento della concorrenza», spiega il nuovo presidente del Consorzio Gallo Nero. «Oltre a questo scenario macroeconomico non positivo gli Europei hanno alcuni specifici fattori di debolezza. La prima è la limitata dimensione delle nostre imprese. Per fare un solo esempio si pensi che il 66 per cento del prodotto finito australiano è controllato da sole 5 imprese, mentre le prime 20 ne controllano addirittura il 94 per cento. Una concentrazione enorme che gli permette di agire su scala globale con mezzi finanziari a noi preclusi». Secondo Giovanni Ricasoli gli italiani dispongono però di notevoli punti di forza: un patrimonio che consente di coprire tutte le esigenze dei consumatori, territori con identità uniche, un know how d’avanguardia e imprese piccole, ma decisamente più elastiche, e in grado di assorbire meglio i momenti negativi.
«Dobbiamo prendere definitivamente coscienza che il nostro mondo è cambiato è che la competizione oggi è caratterizzata dal confronto fra sistemi di impresa più che tra i singoli operatori. Questo ci impone di pensare molto più in grande e di lavorare su diversi livelli, da quello politico a quello aziendale, considerando come prioritaria la difesa del nostro sistema di denominazioni», conclude Ricasoli. Nel 2003 sono state vendute oltre 18 milioni di bottiglie con il marchio Gallo Nero, di cui il 61 per cento all’estero.
«Devo dire che la produzione italiana è passata da una situazione di boom che potremmo definire surreale a una situazione decisamente più realistica. C’è stato un momento in cui ci strappavano le bottiglie di mano. Chi si affidava a un enologo di nome, vestiva la bottiglia bene e faceva un vino decente trovava una sua collocazione sul mercato. Oggi si entra in logiche d’impresa più normali, più competitive. Vince e sopravvive chi è più bravo», spiega Francesco Mazzei. Da oltre 600 anni la sua famiglia è proprietaria del Castello di Fonterutoli a Castellina in Chianti. Francesco Mazzei si occupa a tempo pieno di Fonterutoli dal 1996, dopo aver lavorato alla Barilla e come direttore marketing strategico alla Piaggio.
«Questo è un settore difficilissimo, estremamente polverizzato, dove anche il più famoso è nessuno ed è fondamentalmente sostituibile da chiunque altro. Non esistono dei leader veri. Bisogna pensare come in prospettiva le denominazioni, che sono qualcosa che unisce un territorio e dei produttori con delle caratteristiche simili, con una loro genesi e una loro logica, possano tornare ad avere un valore determinante. Le denominazioni, secondo me, hanno una doppia valenza: garantiscono un certo tipo di prodotto fatto in un certo modo e dall’altra hanno una valenza informativa, di comunicazione. Se su questo si innesta un Consorzio capace di fare bene attività di marketing, si supera il nostro problema più grosso che è quello della frammentazione», dice Mazzei.
«In realtà è sbagliato chiamarci agricoltori. Siamo uno dei rarissimi casi di attività in cui seguiamo tutta la filiera: dal piantare la vite al consumatore. L’agricoltura è solo una parte della nostra attività: importantissima, ma è solo una parte. Il problema è che non ci siamo ancora staccati dalla mentalità dagli agricoltori. Oggi quando impianti le viti devi pensare a cosa vorrà il consumatore fra dieci anni. La denominazione ci dà l’hardware ma il software lo mettiamo noi. Siamo noi che possiamo creare un prodotto migliore perché abbiamo asset migliori, oppure perché abbiamo le intuizioni, le capacità e siamo avanti in quello che facciamo».
Francesco Mazzei ammette che c’è crisi nel settore. «L’euro forte è un grosso problema, la Germania che storicamente era il primo mercato per il vino italiano è in una crisi spaventosa e in più l’Australia sta mitragliando i mercati: c’è tutta una serie di fattori che rendono questo momento particolarmente difficile. Devo dire che le aziende che hanno investito molto sul prodotto e sulla propria immagine secondo me hanno gli strumenti per reagire a questa crisi. Sono ottimista: le crisi ogni tanto fanno bene, soprattutto in settori che rischiano di addormentarsi sugli allori. Anche se anche nel nostro mondo fatalmente penso che ci sarà una scrematura e che non tutte le aziende saranno in grado di sopravvivere».
Emanuela Stucchi Prinetti, ex presidente del Consorzio Chianti Classico, che si occupa con successo assieme ai suoi fratelli della gestione della storica Badia a Coltibuono, sta passando alle coltivazioni biologiche. «Certo in America il cambio ci sta penalizzando moltissimo», dice. «La gente chiede un migliore rapporto qualitàprezzo. Il Chianti Classico è in una fascia di prezzo che regge. Bisognerà vedere se tutte le aziende saranno in grado di superare questa crisi. Resta il fatto che negli anni Novanta il mondo intero si è accorto che il Chianti Classico poteva essere un grande vino».

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