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Affari & Finanza / La Repubblica

La crisi rende il calice più amaro. L’industria enologica è sempre stata uno dei punti di forza, per immagine e fatturato, del paese. Ma i tempi sono rapidamente mutati e i produttori lanciano il grido d’allarme. E la concorrenza straniera ora si fa sentire ... «Si muova la politica» ha tuonato Daniele Cernilli, condirettore del Gambero Rosso e "gran maestro" dei critici enoici come coordinatore della Guida ai vini d’Italia, che già l’hanno scorso aveva proposto una moratoria dei prezzi del vino. E la politica si è mossa. Sotterraneamente. Il cinque novembre, dopo attenta tessitura di Giuseppe Martelli, direttore dell’Assoenologi, i big delle nostrane cantine (da Gianni Zonin a Marco Caprai, dai Folonari alias Ruffino ai Moretti, da Vittorio Frescobaldi a Piero Antinori, da Diego Planeta a Piero Matsroberardino) sono saliti al Quirinale a colloquio con il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Il motivo? Rappresentare che il vino italiano ha bisogno di una spinta per riconquistare i mercati e che va considerato un bene primario del paese.
Già alla firma della nuova costituzione europea il brindisi è stato officiato con il "Giulio Ferrari riserva del Fondatore" (cantine Lunelli) per dimostrare ai signori d’Europa che le nostre bollicine non sono da meno di quelle francesi. Poi il ministro per le politiche agricole Gianni Alemanno, ha convocato in una riunione informale i grandi di Toscana a villa Lisi, splendida residenza di campagna nel pisano, per ascoltare le lamentazioni e i gli alti lai di chi d’improvviso si trova con le botti (troppo) piene. Piero Antinori, il più famoso imprenditore vitivinicolo d’Italia ha dimostrato un recente sondaggio condotto da Winenews il sito più informato sul vino condotto da Alessandro Regoli e Irene Chiari, non l’ha mandata a dire. Il rendimento delle cantine si sta assottigliando, i mercati esteri non sono più così ricettivi e quello italiano langue. Gianni Zonin, che ragiona da maggior vignaiolo d’Italia in termini di superficie e da uomo di banca, ha insistito perché l’Iva sulle bottiglie venga dimezzata (ora è al 20%).
Tanto fermento attorno alle nostre etichette si spiega perché la bolla speculativa sul vino si è sgonfiata d’un colpo. E chi, come Cernilli, vive di luce e di incassi riflessi dal successo del vino, ha rotto il silenzio e dato l’allarme. Forse è il caso di tornare a ragionare di mercato, di bilanci, di economia aziendale. L’occasione la offre il Salone del Vino che dal 14 al 17 di novembre (con successiva appendice di degustazioni a Roma il 27 e 28 dello stesso mese) si tiene al Lingotto di Torino. Al centro della rassegna proprio le questioni economiche: dal rilancio dei vitigni autoctoni al marketing del vino passando per opzioni tecniche come il debutto dei tappi a vite e la faccenda serissima dell’"erga omnes" attribuita ai Consorzi di tutela che possono controllare anche i non aderenti ai Consorzi stessi. Che ci sia crisi lo dimostra anche il Salone medesimo: ridotta la superficie espositiva, presenti però tante cantine (220) al workshop che li metterà in oltre 1500 incontri in diretto rapporto con 42 buyers provenienti dai paesi dove si spera di riuscire a piazzare il nostro vino. Le cantine hanno urgente bisogno di vendere. La ragione è semplice: hanno pagato, sulla scorta dei facili incassi di qualche tempo fa la terra a prezzi stratosferici, hanno ripiantato i vigneti alla (sacrosanta) ricerca della massima qualità, hanno speso molto in promozioni indirette e ora hanno i mutui da rimborsare. E non è facile in un momento in cui i consumi sono in contrazione e non si possono più gonfiare i prezzi come un tempo.
Si è visto poco teatrino e molta preoccupazione per i ricarichi dei ristoranti, per una rete distributiva che spesso gonfia, ai danni del produttore stesso, i prezzi finali. Ma averli rialzati continuamente oggi impedisce ai vignaioli di tornare indietro anche se la grande distribuzione (che ormai detiene la maggior quota di mercato anche nel vino) invita i produttori - lo ha fatto esplicitamente Sergio Soavi il responsabile acquisti vino di Coop Italia - «alla trasparenza dei prezzi, alla moderazione, al dare il senso degli andamenti qualitativi e stagionali, ad educare il consumatore a comprendere il vero valore del vino». Alla politica i produttori presentano il conto di una legge 164 (la riforma del sistema delle Doc) che ancora non si vede, di un rendiconto dell’Enoteca d’Italia (doppione della storica Enoteca Italiana) assai ben finanziata dal ministero ma che non si capisce cosa stia facendo, di una mancata spinta promozionale all’estero, di una certa confusione normativa e di una fiscalità contraddittoria. Per loro conto ci mettono il blocco dei listini e una razionalizzazione del sistema produttivo oggi non più rinviabile. Basti dire che in Italia le cantine sono 800 mila (danno lavoro a quasi due milioni di persone) ma quelle che esportano sono appena 1200 e che 60 aziende fanno un quarto del complessivo fatturato che ammonta a 9 miliardi di euro (di cui il 33% viene dall’export) e che colloca il vino come primo prodotto dell’agroalimentare e prima voce di saldo attivo della bilancia dei pagamenti.
Ma a preoccupare comincia anche la permeabilità delle nostre frontiere. Fino a due anni fa le nostre importazioni di vino erano risibili. Ora si scopre che c’è stato un balzo del 25 per cento. Si dirà: sono i vini di basso prezzo che vengono da Cile, Argentina, SudAfrica. Non è solo cosi. Lo Champagne che ha drasticamente ridotto i prezzi ha un tasso di crescita sul nostro mercato del 7 per cento negli ultimi 8 mesi e i grand crus francesi (Bordeaux per intenderci) hanno programmato uno sbarco in Italia annunciato con una degustazione spettacolo a Milano. Gli spagnoli si sono affacciati con prepotenza sul nostro mercato e soprattutto c’è la minaccia australiana (le esportazioni verso l’Italia sono aumentate del 50 per cento in un anno) che ha programmato un dumping commerciale massiccio sul mercato europeo. Gli scenari dunque sono radicalmente mutati nel volgere di pochi mesi. Tuttavia una qualche schiarita c’è. Gian Primo Quagliano, che dirige il Centro Studi Promotor, ha monitorato per conto del Salone del Vino (la ricerca completa sarà presentata in apertura della rassegna torinese) il mercato e sostiene che: «E’ vero: c’è il fattore prezzo che condiziona in parte i volumi di mercato, ma è anche vero che la bottiglia può essere considerata mezza piena perché c’è comunque una propensione all’acquisto del vino di qualità». Insomma si disegna un mercato schizofrenico: da una parte per il vino di tutti i giorni si cerca di risparmiare (e talvolta di eliminarlo dalla tavola spiegando così la contrazione di consumi arrivati ormai sotto i 48 litri pro capite), dall’altra ci si concede ogni tanto la grande bottiglia (vedi il successo dello Champagne, ma anche delle bollicine nazionali). Chi soffre è il vino che sta nella fascia media di prezzo. Anche perché la bottiglia potrebbe essere presa come un indicatore del tasso di ricchezza individuale (un po’ come succedeva con l’hamburger per stabilire il potere d’acquisto del dollaro). Svaniti i facili guadagni di Borsa e i rendimenti dei Bot le etichette glamour - quelle di poca sostanza e molta apparenza - sono state ben presto accantonate dai consumatori.

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