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Affari & Finanza / La Repubblica

Gli australiani ci copiano, cloni dei vitigni autoctoni ... Aglianico, Montepulciano, Barbera, Nebbiolo, Sangiovese. O magari Nero d'Avola o Fiano, Greco, Falanghina. Vitigni italiani che potrebbero ritrovarsi in filari e bottiglie rigorosamente made in Australia. Questa è la nuova sfida su cui si stanno lanciando i produttori del nuovissimo mondo per soddisfare i clienti più raffinati dei loro ristoranti e per conquistare spazi di mercato, soprattutto nei paesi dell'estremo oriente, dando una carta in più alla loro sapiente politica di marketing. E a guidarli nei loro esperimenti ci sono anche grandi esperti italiani, pronti a spendersi perché il buon nome dei nostri vitigni non sia rovinato da apprendisti alle prime armi. Una grande produzione diffusa su oltre centosessantamila ettari e quattro grandi gruppi a dividersi l'85% dell'intera produzione vinicola australiana. Un mercato interno in forte crescita con aumenti del 24% e una crescita ancora, pari al 28% in Nuova Zelanda, che si accompagna in entrambe i paesi alla riduzione del consumo di birra. Grandi possibilità di espansione in estremo oriente, dove anche i nostri vini hanno registrato un incremento di quote e del fatturato nell'ordine del 6%, secondo dati Ismea. E ancora, almeno fino a questo momento, solo quattro vitigni prodotti e una grande attenzione per i vini della nostra penisola. E così per uscire dal quadrilatero Merlot, Cabernet, Chardonnay, Syrah alcune grandi imprese stanno destinando spazi molto ampi per le nostre dimensioni, magari fino a 30 o 40 ettari, per tentare di spostare di emisfero il Sangiovese. "Sono ormai alcuni anni spiega l'agronomo Leonardo Valenti che gli australiani tentano di far crescere alcuni nostri vitigni nelle loro terre. Ci hanno già provato prima di loro gli americani che hanno lavorato soprattutto sul Sangiovese, ottenendo qualcosa di interessante ma che non raggiungeva il livello delle nostre produzioni. In Australia sono molto sensibili ai vitigni italiani. Un po' perché si sono stancati di scegliere sempre solo tra quattro possibilità Merlot, Cabernet, Chardonnay e Syrah un po' perché il consumatore è comunque interessato al vino italiano ed è disposto a spendere un po' di più per un prodotto magari fatto in Australia ma con un nostro vitigno». Gli ostacoli da superare non mancano. Dalle severe regole alle importazioni, che impongono periodi di 'quarantena' anche di due o tre anni ai materiali importati dall'Europa, alle difficoltà nel trovare terreno, esposizione al sole, condizioni climatiche che consentano di ottenere buoni risultati. Ostacoli che non sono però impossibili da superare. "Come si fa a pensare prosegue Valenti che in un paese così grande non si trovi una zona con condizioni ideali per i nostri vitigni? Hanno spazi enormi per provare ed è comunque un tentativo che i grandi gruppi australiani o quelli che hanno radici sia pur lontane nell'immigrazione dal nostro paese faranno perché i margini di guadagno sono allettanti. E allora meglio per il buon nome dei vitigni italiani che tutto funzioni per il meglio. Sono stato in visita in alcune zone, nella Claire Valley o nella Barrosa Valley, nella zona di Adelaide e stiamo studiando una strategia di scambi". C'è però chi sostiene che al vino prodotto in questo modo mancherà sempre qualcosa di insostituibile. "Indubbiamente spiega Emilio Pedron, amministratore delegato del Gruppo Italiano Vini guardiamo con attenzione a questa cavalcata dei vini provenienti da paesi che si affacciano a questa attività e ci domandiamo quanto durerà. La loro è un'attività orientata dal mercato, che risponde solo al mercato. Noi invece guardiamo al prodotto, facciamo il nostro vino e poi lo proponiamo ai consumatori. C'è in questo la nostra tradizione, la nostra cultura, l'attaccamento al territorio che australiani o neozelandesi non possono avere. Tanto più i consumatori diventeranno esperti e capaci di scegliere, tanto più torneranno da noi". Biondi Santi di Montalcino, per esempio, è l’unica azienda che ha un clone omologato con il proprio nome, il bbs 11, che rappresenta la storia e la tradizione più autentica del Sangiovese Grosso di Montalcino. Nel 1991, a Montepo’, ha realizzato un progetto enologico su base scientifica che, partendo ancora dal bbs 11, e quindi ancora da un vitigno autoctono, producesse un vino innovativo. Cabernet Sauvignon e Merlot, che pure sono usati a Montepo’, non sono altro che degli espedienti per "ambientare" i prodotti sui mercati internazionali. Nulla toglie, però, che anche dai nuovi arrivati si possa imparare qualcosa. "Hanno una strategia di marketing diretta, efficace, sofisticata e un apparato vitivinicolo molto grande. Ma non credo riusciranno a portare lì i nostri vitigni. Provi a pensare a un Nero d'Avola fatto in Trentino. Ma sulle strategie di mercato dovremmo diventare più bravi. Da noi riconosce Pedron ci sono ancora trecentomila aziende che imbottigliano e tutte le strategie di mercato diventano più difficili. La nostra è un'offerta più esclusiva, più ricca di tradizione, di storia, del nostro buon gusto, ma se a questo riusciamo ad aggiungere una maggiore capacità di conoscere e capire e mercati, possiamo arrivare meglio anche in quei paesi dove ancora il vino stenta un po'. Se non lasciamo solo il vino a parlare ma lo accompagniamo con tecniche di promozione e marketing allora possiamo davvero dare dei punti a tutti".
I vigneti che valgono di più (per ettaro, in euro)
Trentino 360/450.000 euro
Valpolicella Classico 270-300.000 euro
Verdicchio 50/70.000 euro
Sicilia - 50/70.000 euro
Brunello di Montalcino - 270/320.000 euro
Bolgheri - 250/300.000 euro
Barolo/Barbaresco 260/300.000 euro
Franciacorta - 80/110.000 euro
Chianti Classico - 90/150.000 euro
Montefalco - 70/100.000 euro
Collio 130/180.000 euro
Fonte: www.winenews.it  
Autore: Stella Bianchi

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