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ItaliaOggi

Folonari, laboriosa gens vinifera…Dai primi vagiti dell’export alla rivoluzione della qualità … Se, come sostiene un vecchio adagio, il vino fa buon sangue (cosa non lontana dal vero, viste le proprietà antiossidanti dei polifenoli che aiutano il cuore a difendersi dai radicali liberi), se il vino, dicevamo, fa buon sangue, oggi dalle vene del paese sgorga un prodotto nettamente superiore rispetto a quello che si produceva agli inizi del ‘900. Gran parte di questa rivoluzione ‘enoica’ si deve ad alfieri del vino, che hanno lavorato per migliorare il Made in Italy estratto dalle uve. Tra questi, c’è Ambrogio Folonari. Lui e la sua ‘gens’ (dinastia) che, fin dai primi vagiti del ‘secolo breve’, ha lavorato duro per fare del nettare di Bacco un prodotto capace di conquistare i mercati. I Folonari hanno radici nelle Alpi lombarde. Dalla Valtellina sono passati in Val Camonica; poi la calata a Brescia, fino allo sbarco nel Chianti e, infine, in Puglia. Sempre lungo le rotte del vino. L’epopea di questa famiglia, che miscela un cuore liberale, cattolico e, al contempo, calvinista, viene descritta in un libro autobiografico, realizzato dallo stesso Ambrogio Folonari. Titolo: “Nelle mie vigne l’eredità del Cabreo” (Egea edizioni). Il volume è curato da Emanuela Zanotti, ma si avvale di una raffinata prefazione storica, tracciata dalla penna di Luciano Ferraro, vicedirettore al Corriere della Sera. ItaliaOggi ha deciso di segnalare questo volume, nell’inserto dedicato all’agroalimentare, perché rileggere l’avventura imprenditoriale dei Folonari è come camminare su un sentiero che attraversa il tempo. La storia di questa stirpe di vignaioli e banchieri, attivi nell'Accademia dei Georgofili, coincide con quella del vino italiano e, più in generale, intreccia quella del paese. Con le sue sfide e le sue cadute. Quando Milano progettava l’Expò internazionale del 1905-1906, la Folonari Fratelli di Brescia sottoscriveva le azioni indispensabili a finanziarie l’evento. Quando, negli Usa, i venti del proibizionismo affossavano l’export, i Folonari, prima nel 1919, poi nel 1932, facevano pressione sul governo, affinché lavorasse per favorire le esportazioni di vino. Viceversa, il settore avrebbe avuto un futuro lugubre, di mera sussistenza. Prima della Grande Guerra i loro vini avevano raggiunto le tavole dello zar. Investirono, poi, in Toscana, dove rilevarono la Ruffino, che portarono al 50% di export prima che i cannoni tornassero a tuonare nel secondo conflitto mondiale. Investirono anche in Puglia, affinché i vini locali da taglio irrobustissero quelli più deboli del Nord. Parteciparono, così, al rinascimento dell’enologia pugliese, falcidiata dalla fillossera. Durante la Seconda guerra mondiale, il loro “Lacrima d’Oro”, un nettare dolce prodotto in Puglia, grazie all’alchimia prodigiosa dell’enologo Tino Juffmann (che utilizzò il solfito dove non c’era), sedusse i palati delle truppe alleate. Così, i profitti che ne derivarono aiutarono la ricostruzione degli impianti devastati del Settentrione e i loro nettari del Sud restituirono linfa alle cantine in macerie del Nord Italia. Tra queste, c’era anche la Ruffino di Pontassieve, che venne risollevata grazie all’intuizione di lanciare sul mercato il vino in bottiglia, con etichetta propria e lo slogan: Al vostro vino quotidiano”. Rivoluzionò il mercato, perché quel nome sulla bottiglia trasformò il prodotto da commodity a bevanda ricercata. I Folonari capirono, tra i primi, che il calo dei consumi di vino sarebbe stato strutturale. E che il futuro poteva essere solo nella maggiore qualità. Così, nel 1963, Nino Folonari partecipò a edificare la normativa presentata da Paolo Desana (dpr 930/1963), che istituì la denominazione d’origine. Negli anni ‘70, mentre l’Italia assisteva alla fuga dei capitali, la famiglia investì nel paese. Acquistarono altri ettari in Chianti e aumentarono il capitale della Ruffino. Fecero leva sulle réclame di “Carosello” e il loro tipico fiasco impagliato diventò, così, “la Fiorentina”. Per tutto il paese. Dal lavoro dei Folonari in Chianti Classico, sgorgò il Cabreo, oggi totem di gamma e simbolo della rinascita vitivinicola italiana. Nato nel 1982, deve il nome alle vecchie mappe catastali, i ‘cabrei’, che identificavano i poderi. Un epiteto che indica il legame indissolubile col territorio, da cui promana. E che fu intuizione di Ambrogio Folonari. Nel 2024, il Cabreo spegne le 40 candeline. E i suoi rivoli finiscono per dar colore alle pagine di un libro. Anche questo, tutto da degustare.

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