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Corriere della Sera

Palco e vigne, la musica del vino … L’impresa di Giulio Wilson, enologo e cantautore: «Produco sulle colline toscane 25mila bottiglie all’anno e recupero gli antichi vitigni”. L’agricoltura biologica e il lavoro coi contadini anziani… Doppio binario. Di qui, l’enologo: vigne, grappoli, vendemmie, le stagioni del vino, il recupero dei vitigni nobili e dimenticati. Di là, il cantastorie toscano che dice: “Vale la pena coltivare le piante / correre al vento su colline scoscese / aprire un libro chiuso in una soffitta / sentirsi bene pure in minoranza”. Storie di alberi, gatti e legno di ciliegio più che di smartphone e social. Dal 2005 si occupa di riconversione in agricoltura biologica sulle colline delle Cerbaie sulla Via Francigena, tra Pisa e Firenze. Segue le viti, raccoglie le uve migliori, riempie i tini per pigiare. Poi c’è la musica: cantautorato duro e puro, “necessario come l’aria che respiriamo, perché oggi troppi parlano e pochi ascoltano». Giulio Wilson, lo studente di Agraria divenuto enologo è, a 38 anni, uno stimato produttore da 25mila bottiglie all’anno: Sangiovese, Trebbiano e un pacchetto di vitigni autoctoni «specchio della ricca e variegata produzione italiana: Pugnitello, Foglia Tonda, Abrostine, Abrusco”.
Nell’ambiente lo chiamano Wilson lo spericolato, “uno che sa osare”. Casa a Firenze, una compagna e due figli, Alma, 3 anni, e Mario, 9, “attratti per ora più dal cantautore che dal viticoltore”. Sede dell’azienda a Fucecchio, 22mila abitanti, il paese di Indro Montanelli. L’enologo affianca il musicista. Spiega: “La mia vita è divisa a metà. Durante la vendemmia sono un vignaiolo al 100 per 100, quando scrivo o sono sul palco mi sento un musicista totale”. Fifty-fifty. “In famiglia mi hanno insegnato a cercare la stabilità: mamma medico e papà agronomo. Dopo la laurea, mi sono messo a girare nei circoli e nei bar intorno a Fucecchio. Entravo e chiedevo: c’è qualcuno che ha bisogno di una mano? Affittavo vigne che i contadini più anziani, magari senza eredi, stentavano a portare avanti. Spesso fatiscenti e poco redditizie. Coltivavo e producevo per loro”. Non fu facile farsi accettare. “All’inizio c’era il gelo. Poi, conquistata la fiducia grazie al passaparola, “ohi, quello non racconta balle, è bravo davvero”, le cose hanno cominciato a marciare”.
La prima vigna di proprietà risale al 2007, “praticamente, un campo sotto casa”. La società “Dalle nostre mani” Wilson l’ha fondata con Lapo Tardelli, agronomo, amico di tutta la vita. “Oggi coltiviamo ettari di antiche vigne ristrutturate e convertite in agricoltura biologica e collaboriamo con 14 anziani contadini. Usiamo una forma di allevamento chiamata girone capovolto toscano. Leghiamo i tralci con i rami di salice, senza usare plastica. Tutte le operazioni, dalla potatura alla raccolta dell’uva, vengono eseguite manualmente. Una sorta di banca della memoria. Evitiamo che la sapienza antica svanisca per sempre”.
L’attrazione fatale per la musica lo colse bambino. “Mia madre mi iscrisse al corso di pianoforte mentre mia nonna, una sarta di Faenza morta a 95 anni, mi portava nelle balere. Il mio primo complessino si chiamava gli Antisgamo, quelli che non si fanno sgamare”. Wilson ha collaborato con Vinicio Capossela, Roberto Piumini, Bobby Solo, I Musici di Guccini. La notorietà è arrivata con Soli nel Midwest, prodotto da Enzo Iacchetti. Il suo ultimo album è Storie vere tra alberi e gatti (2021), “disco introspettivo, analogico, con atmosfere cinematografiche: Fellini, Piovani, Benigni. Ogni canzone, una storia. Budapest racconta di un gelataio italiano che in Ungheria salvò molti ebrei. Fido ricorda il cane di Borgo San Lorenzo che per 14 anni ha aspettato alla fermata del bus il padrone morto sotto le bombe”.
Wilson è in questi giorni sul palco con gli Inti-Illimani per i concerti del Vale La Pena Tour in corso fino al 20 marzo con il sostegno di Amnesty International. “E sto preparando, senza fretta, un nuovo disco: solare, latino, allegro”. Racconta: “Con gli Inti-Illimani ci siamo incontrati per caso. Durante il lockdown del 2020, il giorno in cui morì Sepulveda, mandai un messaggio a Jorge Coulón. Lui mi rispose con una frase che mi colpì: gli artisti e gli scrittori di testi e di canzoni non muoiono mai. Dopo quella lettera, ci siamo trovati a Santiago del Cile. Di loro avevo un’immagine Anni 60, El pueblo unido... Ho trovato professionisti esemplari”. Ma lei, Giulio, si sente più a suo agio sul palco o nei campi? “Durante le tournée vivi emozioni impagabili. Nei campi il rapporto è più intimo, personale. Di certo, a questo punto non potrei più fare a meno né di quelle né di questi”.

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