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Corriere della Sera

Gabriele Gorelli … Come Master of Wine (unico del Paese), racconta la produzione tricolore all’estero: “Nel mondo c’è un culto per l’italianità: cavalchiamolo, oggi servono una critica forte nazionale e un manifesto per il nostro vino”… Tra le vigne ci è cresciuto, dato che suo nonno Assunto era il più piccolo produttore di Brunello di Montalcino. Ma fin da ragazzino Gabriele Gorelli, classe 1984, aveva capito di non voler fare vino. Voleva piuttosto raccontarlo: “Mi sono reso conto di quanta fatica ci fosse nella vinificazione e di quanto poco questa complessità arrivasse al consumatore. Desideravo intervenire lì, in quel gap informativo», spiega. Ecco perché, dopo essere diventato sommelier e degustatore Ais, e dopo aver aperto un’agenzia di comunicazione dedicata al settore — “Siamo stati tra i primi a girare i video in time lapse delle vigne e del territorio, oggi tutti esposti al museo interattivo del Brunello... che soddisfazione”, ricorda — ha deciso di intraprendere il lungo e difficile percorso da “Master of Wine”. Un riconoscimento creato 70 anni fa dall’inglese The Institute of Masters of Wine, inizialmente di stampo commerciale e poi ampliatosi fino a diventare una “patente universale» per i massimi esperti di vino. Finora hanno ottenuto il titolo 414 persone in 31 Paesi. Gorelli, per adesso, è l’unico italiano. Ci ha messo sette anni, dal 2014 al 2021, superando degustazioni alla cieca, scrivendo saggi su temi specifici di viticoltura ed enologia in inglese e anche una “tesi” sperimentale. Le spese per il percorso di formazione non le vuole nemmeno contare: “Solo nel 2016 ho sborsato 3omila curo tra viaggi e bottiglie”, racconta. Nel frattempo, insieme alla moglie Azzurra, ha avuto un figlio, Giovanni, nato nel 2018. “Lui è stato la forza propulsiva per chiudere il percorso di studi: nel 2017 non avevo superato la prova scritta, l'anno dopo ce l'ho fatta, mi sono posto in modo completamente diverso”. A due anni e mezzo dal titolo, il lavoro a tempo pieno è quello di “ambasciatore” del vino italiano tramite degustazioni, masterclass, consulenze, tutte sotto il cappello della società Kh Wines, fondata nel 2015, dove Kh sta per “know how”. “Sto facendo quello che desideravo: valorizzare l’italianità. Non mi presento mai come l’uomo del Brunello o della Franciacorta, sono una figura “di unificazione”. E viaggiando tanto mi sono accorto di una cosa: tutti vogliono essere italiani. Il vino conta fino a un certo punto, potrebbe anche non piacere: è lo stile di vita, la cultura, il territorio quello che ci invidiano. C’è un vero e proprio culto dell’italianità. Anche parlare italiano, oggi, è cool”. Altro che “tu vuo fa’ l’americano”, la situazione si è ribaltata. Eppure la critica enologica più potente resta anglosassone: “Un’egemonia dettata da motivi commerciali, che però andrebbe superata. Servirebbe una critica italiana forte, in grado di comunicare in inglese. E servirebbe anche un “passaggio generazionale” tra i divulgatori: stiamo ancora a citare Veronelli o Soldati, basta. Adesso ci siamo noi: esperti, degustatori, giornalisti, persone che conoscono il settore e girano il mondo. Vorrei creare un manifesto del vino italiano, un “credo” sotto il quale riunirsi. Un’associazione interprofessionale unita dallo stesso obiettivo: portare il vino italiano nel futuro, senza zavorre e pregiudizi”.

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