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Corriere della Sera

La riscoperta del Teroldego “È una questione di famiglia” ... Mantenere “la purezza”. Poco prima della pandemia, Elisabetta Foradori è stata premiata dai sommelier lombardi. Vestito da sera blu, orecchini di perla e capelli sale e pepe, Foradori è stata la star discreta della serata. Signora trentina delle anfore e della biodinamica, ha raccontato la sua carriera, centrata sulla ricerca della purezza (vinicola e morale) e il suo futuro: sempre più agricolo, assieme alla figlia Myrtha che fa parte di un movimento di giovani europei capaci di vivere con i frutti di un ettaro. Era una ragazza, Elisabetta, quando partecipò alla prima vendemmia nell’azienda gestita dalla madre Gabriella Casna dopo la morte del marito Roberto. Una ragazza che, terminati gli studi alla scuola enologica di San Michele all’Adige, aveva le idee chiare: voleva salvare il Teroldego, un vitigno della piana Rotaliana che stava scomparendo. Anche se, come ha spiegato Jancis Robinson, la critica del vino autrice di una monumen-tale compendio sulle varietà vinicole (“Wine grapes”, con Julia Harding e José Voulliamoz) è un “vitigno capostipite”, uno dei genitori di vitigni diversi. Le analisi del Dna hanno dimostrato che è fratello del Dureza dell’Ardèche, che ha generato il Syrah. Il Teroldego è quindi zio del Syrah, nipote del Pinot e nonno del Refosco dal Peduncolo Rosso. “Foradori — sostiene Robinson — quasi da sola ha portato il Teroldego all’attenzione internazionale, la varietà aveva rischiato di essere abbandonata a causa dell’elevata acidità del suoi vini. Ha bisogno di basse rese e di una gestione molto attenta per produrre vino pregiato. Il vino che ha rilanciato il Teroldego si chiama Granato ed è uscito sul mercato nei 1986. Tanto lavoro in vigna, recupero dei vecchi doni e test con microvinificazioni, uniti a una buona dose di coraggio, hanno consentito alla vignaiola di Mezzolombardo di far conoscere in pochi anni il Teroldego prima in Italia, poi nel mondo. Quando poco più che ventenne, Elisabetta è scesa in cantina e ha scoperto una vecchia bottiglia dimenticata dal padre (morto quando lei era in quinta elementare), ha capito quale fosse la sua strada. Quel vino non aveva nulla a che fare con il Teroldego rustico e commerciale dell’epoca. Era ancora vivo e autentico, proprio come veniva ricordato nei vecchi testi di enologia, quando lo chiamavano Teroldico. Se la prima svolta è stata il passaggio dal vino sfuso alle bottiglie di valore, la seconda è stata l’avvicinarsi alla terna con un approccio etico e sostenibile. “Abbiamo imparato a metterci in ascolto per cogliere le sottili differenze esistenti in natura — dice —, abbiamo imparato a preservare la sincerità del carattere dell’uva nell’espressione del suo luogo d’origine”. Quindi dal 2002 spazio alle anfore, consigliate da un altro vignaiolo, Giusto Occhipinti, dell’azienda Cos. E all’antroposofia, la dottrina messa a punto da Rudolf Steiner, teorico della biodinamica. Assieme a Myrtha, lavorano in azienda i fratelli Emilio e Theo. Sono la quarta generazione dei Foradori. Tocca a lo-ro andare oltre il vino biodinamico, aprendosi ad altri prodotti agicoli. E continuando a “mantenere la purezza”.

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