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Corriere Della Sera / Io Donna

La cattedrale nel vigneto. Presse, serbatoi, barrique. Tutto sottoterra, tremila metri quadri maestosi, cemento e acciaio trattati per ottenere le muffe e l’umidità giusta. Perché un conte enologo investe sette milioni di euro nel culto del vino? Per una filosofia di vita e una di business. Che pensa alle mele altoatesine e alla Cina … Come la fede medievale, il culto del vino ha prodotto grandi cattedrali chiamate cantine. Gli architetti doc si scatenano, spesso spianano le colline per travasarvi più cemento e genialità possibili, purchè si veda da lontano che chi comanda lì non è lì per caso, ma ama talmente l’uva e quel paesaggio da volerci lasciare un segno della sua devozione per sempre. Tanto che, specialmente in Italia, la cantina è sempre meno cantina, ma luogo di rappresentanza o mondano, sala convegni o passerella di moda, come se non si tollerasse che qualcosa di bello, ancorché muffoso o oscuro, possa starsene sottoterra nascosto ai più. Il conte Michael Goes-Enzemberg, non ignaro che dietro a questo enoesibizionismo vi sono molti produttori aristocratici, parla di “teatralità italiana”. E aggiunge, parafrasando Gertrude Stein, che per lui “una cantina è una cantina, è una cantina…”. Mentre il suo architetto, Walter Angonese, non esita a definire una celebre opera del maestro Mario Botta in Maremma semplicemente “un ufo”.

Ma chi sono, il conte e l’architetto, per giudicare una cantina? Secondo la stampa americana e inglese ne hanno costruita una che è la più bella del mondo. Attenzione però: se venite fin quassù in Alto Adige, sulle colline e tra i vigneti che fanno da corona al Lago di Caldaro, la zona più meridionale della prestigiosa produzione vinicola sudtirolese, e con lo sguardo cercate la cantina dell’azienda Manincor, restate delusi. Perché sta banalmente sottoterra, a fianco del massiccio maniero di famiglia del Seicento: tre piani, trentamila metri cubi, tremila metri quadrati che ospitano presse, fermentino, serbatoi, le barrique, la linea d’imbottigliamento. Tutto ben rintanato dentro la collina, ovviamente coltivata a vite. “Il bello non serve mostrarlo. Resta bello anche se non lo vede nessuno” dice von Enzemberg. Eppure in un anno ha accompagnato oltre 5.000 visitatori, venuti anche dalla Nuova Zelanda. L’impianto è come una macchina gigantesca, o il ventre di un bestione. Le uve Chardonnay, Moscato giallo, Pinot bianco, Schiava o Lagrein, provenienti dai 45 ettari di vigneto, entrano come in un orifizio corporeo e vengono infine espulse organicamente. Per caduta, assecondando la sola forza di gravità, passando di piano in paino nel modo più docile attraverso le varie fasi di lavorazione, l’uva diventa mosto e vino - perché ogni intervento forzato, dicono, si porta via qualcosa di buono. Entrare in cantina significa attraversare un lungo corridoio perimetrale che è il cuore climatico, la membrana che provvede ai livelli ottimali di umidità e ventilazione, mentre la temperatura stagionale stabile è ottenuta attraverso delle pompe e scambiatrici di calore collocate a 80 metri di profondità. Il calore della terra viene portato in cantina e d’estate estratto. La tecnologia, anche se quasi superflua, è complessa e l’utilizzo di energia artificiale minimo. Una creatura autarchica, dove la luce è all’ottanta per cento naturale grazie ad abili giochi di varchi, spettacolari. Tutto si autoregola come un organismo: nel processo di fermentazione del vino, per esempio, vengono impiegati i batteri locali e non quelli coltivati. Le barrique sono ricavate con il rovere dei boschi di famiglia, sulla collina Mittenberg, dall’altra parte del lago. Il cemento è stato colato sul posto, miscelato con sostanze organiche che nel tempo producono irregolari corrugamenti, come l’intonaco e la calce, perfetta dimora dei funghi. L’acciaio è arrugginito, ma non per simulare l’estetica di una cantina tradizionale, bensì per creare l’ambiente adatto ai microrganismi. Dalla sala degustazione alla sala macchine, al magazzino dei trattori la stessa pragmatica, efficiente concettualità. Angonese, 43 anni, parla di weiterbauen, costruire in divenire. Proprio come ai tempi di Saint Denis, dei grandi costruttori di cattedrali. Racconta come suono andate le cose. Che il conte, enologo, aveva una sua idea architettonica e che lui, architetto, aveva sempre desiderato occuparsi di vino. Per tre anni, con due collaboratori, Reiner Koberl e Silvia Boday, si è trasferito nel cantiere.

“Un’esperienza incredibile, rivoluzionaria, perché io per cultura estraneo al mondo aristocratico, ho scoperto un tipo d’uomo diverso, di un semplicità e di una moralità quasi eversive. Una “nuova umiltà” che mi ha contagiato. Sembrerà esagerato, ma anche una cantina può raccontare una concezione della vita”. Il conte Enzemberg è un uomo di 44 anni, alto, biondo, occhi azzurri, contemplativi e franchi, uno sguardo di montagna. Nei tratti e nei modi ricorda un po’ Jeremy Irons. Nato in un castello della Carinzia, nel 1987 si trasferisce in Alto Adige dove ha ereditato alcune proprietà di famiglia (gli Enzemberg e i Manincor, uniti con un matrimonio dal Seicento, sono stati tra i favoriti alla corte degli Asburgo): vigneti, frutteti, miniere di rame e numerose splendide dimore.

“Ma non lo sento mio” dice “Amministro per le generazioni future, il mio tempo non coincide con la mia esistenza. Non ho bisogni. Da ragazzo ho studiato da falegname, poi gli obblighi mi hanno portato qui”. Non ha mai abitato in una città (solo due mesi a Firenze per imparare l’italiano), dopo il diploma di enologo in Germania ha trascorso un anno nella Napa Valley, vivendo con lo stesso stipendio dei messicani, dormendo in patio con il cane del padrone. La moglie Sophie viene dalla nobiltà viennese. Hanno tre figli, Isabelle, undici anni, Rosalie di nove e Kassian di sette: “La prima spende tutto per gli altri, la seconda tutto per sé stessa e l’ultimo non spende nulla”. Racconta, per far capire come in casa ogni euro acquista un valore morale. Quando viaggiano alloggiano in alberghi a due stelle, la sera pregano tutti insieme guardando il lago. Come spiega l’aver investito quasi sette milioni di euro in una cantina? “Sulle mele non si può più contare, la Cina ci sommergerà. Qui il vino è l’attività più solida. Abbiamo venduto tre quarti del patrimonio. Tra dieci anni arriveremo a 300 mila bottiglie e andremo a pari. E poi io voglio che un giorno dicano “Michael ha fatto la cosa giusta per il tempo in cui ha vissuto, ha fatto la sua parte”. Se siamo ciò che facciamo, questa cantina sono io”. (arretrato di "Io Donna - Corriere della Sera" dell'8 luglio 2005)

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