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Corriere Della Sera / Sette

Tra lezioni e degustazioni, chef e produttori conquistano Londra con i sapori italiani ... La capitale britannica è diventata la mecca dei buongustai. E la nostra cucina affronta lì la sfida con francesi e orientali. A colpi di raffinatezze culinarie ed eccellenza di materie prime... “Gli italiani a Londra, quando s’incontrano, parlano di ristoranti. Non ne esiste in tutta Londra uno dove sia piacevole riunirsi a chiacchierare e a mangiare. I ristoranti di qui sono troppo affollati, o troppo deserti. E hanno tutti un carattere o di sussiego o di squallore. A volte i due caratteri si fondono insieme”. Ma non basta: “Prevale uno smorto abbandono; ovunque, d’altronde, si mangiano pressappoco le stesse pietanze, le stesse bistecche scure e arricciate, con accanto un piccolo pomodoro bollito e una foglia d’insalata senza olio né sale”. Ci sono però locali dove si mangia solo pollo arrosto: “Usciamo con una tale nausea di polli che sembra di non poterne mai più assaggiare un pezzetto per tutta la vita”. E ci sono ristoranti di sole uova: “Lì non c’è che uova, uova sode gelate e marmoree, su cui è stato proiettato un piccolo spruzzo di maionese”. Era il 1960, e Natalia Ginzburg, che abitava a Londra col marito, raccontava su “Il Mondo” il rapporto degli inglesi col ““food”, cibo, qualcosa di generico e malinconico. Nei romanzi si legge che viene portato “some food”, nessuna affettuosa specificazione”. Il tono della corrispondenza era di spoglia constatazione, con effetti prossimi al comico. Nel 2010, a Londra e in buona parte dell’Inghilterra, proliferano invece i ristoranti eccellenti, stellati, e ci sono sempre più locali in cui la cura delle materie prime e dell’esecuzione delle ricette è adeguata a palati esigenti. Borough, a Londra, merita la visita di ogni gourmet: è il quartiere dove chiunque abbia un minimo di passione per la cucina vorrebbe abitare. Un mercato vittoriano, sotto le arcate ferrose del London Bridge, con una settantina di banchi che vendono il meglio della produzione alimentare britannica e di quella italiana, francese, spagnola. Pani, pesci affumicati e capesante, cacciagione, montoni, spezie, erbe officinali, e, nei pressi del mercato Neal’s Yard, un magazzino per la stagionatura e l’affinamento di ricercati formaggi inglesi. Non manca un luogo dedicato al vino: Vinopolis, un tunnel ferroviario vittoriano divenuto elegante enoteca e “museo interattivo del vino”. Negli spazi di Vinopolis si è svolta per il secondo anno la trasferta di Identità Golose, “il congresso italiano di cucina d’autore”. I migliori chef italiani che spiegano lo stato delle arti della nostra cucina, sbalordendo ea eccitando la platea di cuochi e giornalisti britannici. Come è successo durante la lezione sulla pasta tenuta da Giuseppe di Martino del Pastificio dei Campi di Gragnano, e le lezioni sulla cottura (sempre della pasta) tenute da Heinz Beck di La Pergola di Roma e da Gennaro Esposito della Torre del Saracino di Vico Equense. Hanno spiegato all’uditorio che quei pochi gesti semplici - cuocere, scolare, condire - compiuti ormai da migliaia di cuochi professionisti o improvvisati di tutto il mondo, andrebbero completamente ripensati e affinati. Partendo dalla scelta della materia prima (pasta di grano duro trafilata al bronzo, e possibilmente non rigata), per arrivare alla ricerca del punto di cottura perfetto, che è controverso e comunque non semplicemente “al dente” come persino molti italiani credono. Schiacciando la pasta cotta tra due vetrini, non deve vedersi l’anima bianca, ancora disidratata. “È importante lavorare sull’eccellenza della cucina italiana, e mostrare come dietro piatti apparentemente semplici ci siano ricerca, tecnica, pensiero e fantasia dell’interpretazione”, dice Paolo Marchi, l’inventore di Identità Golose. “Lo è soprattutto in Inghilterra, Paese colonizzato dall’alta cucina francese e orientale, e in cui la cucina italiana di qualità latitava. Oggi, invece, persino i grandi alberghi londinesi cominciano a investire sui nostri chef più famosi”.

La battaglia di cuochi e prodotti. La sfida è interessante: sul palcoscenico di una città aperta a tutte le influenze, storicamente priva di una propria tradizione di eccellenza culinaria, si duella per riqualificare l’immagine della nostra cucina, non più considerata solo cibo economico e sempliciotto. Naturalmente la battaglia per l’affermazione è dei cuochi ma anche dei prodotti italiani. Così Massimo Bottura dell’Osteria Francescana di Modena, il nostro chef più in auge in Italia e all’estero, affabulava l’uditorio parlando direttamente in inglese (unico tra i cuochi italiani); i produttori di presidi Slow Food offrivano assaggi di piatti realizzati con le loro materie prime; il marchio Grana Padano si presentava in “versione sartoriale”, cioè con tre diverse stagionature (12, 18 e 27 mesi), pensate su misura per interpretare al meglio ogni possibile uso gastronomico; mentre insomma dal food district di Borough Market l’alta cucina e i prodotti di qualità italiani chiedevano attenzione al frenetico pubblico dei gourmet mondiali, si contribuiva a modificare l’idea che mangiar bene, all’italiana, sia una questione da poco o di banale rispetto delle tradizioni. “Un cuoco deve andare oltre, provare a immaginare degli scenari che non siano quelli del fuoco e della padella”, diceva in tono ispirato Esposito, mentre preparava spaghetti con anguilla marinata, pesto di fiori di zucca, zucchine a scapece. Pensiamo alla grama vita alimentare di Natalia Ginzburg e del marito gourmet, Gabriele Baldini, che dirigeva l’Istituto italiano di cultura a Londra. Quarant’anni più tardi si sarebbero divertiti moltissimo.

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