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Corriere Della Sera

Se il vigneto fa gola allo straniero: multinazionali a caccia di cantine italiane. La risposta: vitigni autoctoni ... Nel mondo le grandi manovre sono già iniziate. Il 2003 si è aperto infatti con l’avvio di trattative tra due tra le maggiori case vinicole internazionali, l’americana Constellation Brands e l’australiana Brl Hardy, con l’obiettivo di arrivare a una fusione. I presupposti perché questo traguardo venga raggiunto ci sono: le due aziende già collaborano attraverso una joint-venture , la Pacific Wine Partners, che si occupa di commercializzazione. Unire anche le rispettive attività produttive sarebbe il passo successivo, che sancirebbe la nascita di un colosso mondiale del vino. Il primo esempio di globalizzazione del settore. Tutto questo riguarderebbe due continenti - l’America e l’Australia appunto - dalle tradizioni vinicole recenti. A vincere sarebbe dunque l’approccio imprenditorial-finanziario rispetto a quello storico-culturale. Può l’Europa restare a guardare? E l’Italia? Regge l’ipotesi di una colonizzazione? «Non c’è dubbio che il rischio esiste - risponde Gianni Zonin, uno dei principali produttori italiani e tra i pochi che abbiano investito all’estero -. A questi grandi gruppi manca una presenza forte in Europa. E, poiché è probabile che Francia e Spagna opporranno le resistenze maggiori, è proprio l’Italia la possibile terra di conquista». Anche se, aggiunge Zonin, ben vengano gli stranieri «se questo servirà a dare la scossa ai produttori italiani».

Aziende nel mirino - E’ difficile individuare le aziende che potrebbero finire nel mirino delle multinazionali del vino. Lo «sbarco», però, è già iniziato. A partire da Bacardi, che con Martini & Rossi ha già messo le mani sugli spumanti dell’antica casa piemontese. Ma anche la Bolla di Verona è ormai controllata dagli americani di Brown Forman. A sua volta l’australiana Beringer possiede un’azienda del Chianti. E’ proprio cercando fra questi «marchi» internazionali che si può scoprire chi intende fare shopping da noi. Tra i «sospettati» la stessa Beringer, ma anche un altro australiano, il Foster’s Group, e i californiani Robert Mondavi e Gallo Winery, quest’ultima in assoluto la maggiore azienda degli Usa, con un fatturato di 1,5 miliardi di dollari. Insomma, il vino italiano fa gola a molti. Anche se paradossalmente uno dei punti deboli della nostra industria enologica, vale a dire le dimensioni troppo piccole, potrebbe rivelarsi un deterrente. «In Italia abbiamo 350 differenti vitigni», osserva ancora Zonin. Quanto alle imprese, secondo un recente studio della Deloitte & Touche, le prime 25 controllano soltanto il 17% della produzione. Il resto è polverizzato in una miriade di tenute a conduzione famigliare. Una situazione che potrebbe in un primo momento frenare le iniziative dei colossi stranieri.

Crecita dimensionale - Ma non è il caso di adagiarsi su questa situazione (che comunque non ha impedito a molte aziende di casa nostra di fare shopping all’estero: oltre a Zonin, lo hanno fatto Antinori in Ungheria, Fantinel a Cuba, Masi in Argentina e molti altri). La crescita dimensionale delle aziende vinicole è in ogni caso un obiettivo da perseguire. Le strade, in proposito, sono due: da un lato favorire le fusioni tra le piccole e medie aziende e dall’altro coinvolgere gli investitori istituzionali per far arrivare al settore nuovi finanziamenti. Tanto più che lo stesso studio della Deloitte & Touche ha dimostrato che il vino può offrire ritorni interessanti in termini di redditività.
«Senza nel frattempo abbassare la guardia - conclude Zonin - sul fronte commerciale. Al vino italiano serve un’operazione di marketing a vasto raggio per la valorizzazione dei vitigni autoctoni. E su questo lo Stato, l’Ice, il Ministero dell’Agricoltura ci devono aiutare...».

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