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Corriere Della Sera

A me piace anche il vino che sa di tappo. Problemi maschili Essere analfabeta in un mondo di neogourmet ... Tra le varie forme contemporanee dell' universale Incapacità di esistere, particolarmente imbarazzante è la sua versione, chiamiamola così, enogastronomica. E se ormai da un secolo Freud ci ha insegnato a trovare in ogni incapacità e in ogni fallimento preziose riserve di significati segreti e rivelatori, questa cecità delle papille gustative, o analfabetismo del gusto, che mi sembra allargarsi a macchia d' olio nel mondo, non è stato forse ancora adeguatamente studiato. E si capisce: essendo l' incapacità di cogliere e apprezzare un sapore l' esatto contrario di un talento, è addirittura difficile trovare un vocabolario adeguato a questo bizzarro collasso sensoriale. Queste cupe riflessioni mi sono tornate in mente nei giorni successivi alla morte di Luigi Veronelli, quell' impareggiabile prosatore, spirito anarchico e artista della vita. Non esisterà mai, pensavo, la possibilità di esprimere un mondo di sensazioni uguale e contrario: un Veronelli, insomma, di questa dilagante atrofia del buongusto. E a che servirebbe? Ricordo perfettamente della prima volta che mi è stata rivelata l' esistenza di questa sfera della vita per me misteriosa e inaccessibile: l' apprezzamento dei sapori. Nel refettorio delle monache, alle scuole elementari, un altro bambino mi aveva spiegato che la quotidiana fettina, accompagnata dall' altrettanto quotidiano montarozzo di sciapo purè di patate, erano immangiabili. La parola, prima ancora che il concetto, mi trafisse: me ne ricordo come fosse ieri. Perché era immangiabile ? Per quanto mi riguarda, mi sembrava assolutamente simile alle cose che mangiavo a casa: ingoiate le quali, non si provava più lo stimolo della fame, per niente gradevole. E dunque, scoprivo con un certo imbarazzo, né le cose che preparavano quelle simpatiche monache baffute, né a maggior ragione quelle che mi davano i miei genitori a casa, potevano considerarsi «buone». Ma allora, che cos' era buono ? Come riconoscerla, questa bontà ? Come evitare che tutto, al proprio palato, risulti buono? Chi soffre di questa patologia sa bene il seguito della storia: una volta rinunciato a fare di testa propria, il minorato alimentare dovrà attenersi alla più rigida e meccanica imitazione degli altri. Quando tutti i commensali gioiscono di un cibo o di un vino, per fare l' esempio più classico e ovvio di questa strategia di sopravvivenza, è fin troppo facile accodarsi. Al contrario, esistono dei riti sociali legati al gusto molto più rischiosi, perché impongono al nostro povero minorato alimentare scelte autonome e impegnative. La situazione peggiore secondo me è quella in cui, al ristorante, un implacabile ed impassibile cameriere, muto come una sfinge enologica, gli metterà nel bicchiere, prima di servire la bottiglia, il fatale sorsetto di prova. Se è al ristorante, mettiamo, con una donna, la prova spetta di diritto a lui, per decreto imperscrutabile. E lui, non si tirerà indietro, perché sa bene che quella di assaggiare il vino è prerogativa virile. Denota lo stare a proprio agio nel mondo, la sicurezza in se stessi e nella propria facoltà di giudizio, e altre belle cose che potrebbe far comodo lasciar credere alla compagna di tavola, perlomeno durante la cena. Allora, non gli resterà che indossare i soliti panni di Zelig del gusto, e preso in mano con coraggio il bicchiere, analizzarne controluce il contenuto, che gli è totalmente indifferente, e poi annusarlo, tentando di mantenere (è la parte più difficile) un' espressione intelligente. Potrebbe voler strafare, imitando quel misterioso gesto rotatorio del bicchiere che ha visto fare a qualche gourmet vero, e che per lui, essendo privo di qualsiasi significato razionale, può rivelarsi molto rischioso da imitare. A me è capitato un paio di volte, nella foga rappresentativa, di imprimere al vino nel bicchiere questa spinta rotativa con un fatale eccesso di zelante energia, trasformando il bicchiere in centrifuga impazzita, col risultato di inondare me stesso e la tovaglia. Se riuscite a riprendervi da questa umiliazione, meritereste vi si offrisse la cena. Ma non si può ordinare sempre birra, bisogna provarci, e dopo aver compiuto con attenzione questi arcani ma necessari gesti preparatori, mandare finalmente giù un sorso per poi, cercando di non rivelare nulla del vostro totale vuoto interiore, trascorsa un' adeguata manciata di secondi (che dovrebbe rappresentare il cuore del rito, l' essenza della degustazione), fare cenno al cameriere che sì, va tutto bene. Sempre sperando che nel frattempo il contenuto di quella dannata bottiglia non sia divenuto aceto, come ogni tanto si diverte a fare, o, ancora peggio, che sappia di tappo. Perché voi, ipocriti sans papilles, che cosa sia questa faccenda del sapere di tappo, non l' avete mai capita davvero. Ma sono terreni in cui non dovete nemmeno azzardarvi a sconfinare. Il guaio è che, a voi, piace pure il tappo.

Trevi Emanuele - Nato nel 1964 a Roma, dove vive. Ha curato edizioni di grandi classici, tra cui Salgari. Scrive per Il Manifesto (Alias). L'ultimo libro è "Senza verso" (Laterza, 2004)

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