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Corriere Della Sera

Regioni avare per le cure a chi beve troppo ... Terapie. A fronte di un nuovo Piano nazionale, servizi territoriali insufficienti e ricoveri sbrigativi... Terapia farmacologica e ricovero, nella fase acuta; psicoterapia, individuale ma soprattutto di famiglia e con i gruppi di auto-aiuto quando il malato si cronicizza. L’approccio alle cure degli alcolisti non è cambiato di molto negli ultimi anni. “Dal punto di vista clinico - dice Valentino Patussi, responsabile del Centro alcologico regionale della Toscana - ogni paziente è un caso a se stesso. Il disulfiram (farmaco usato per la disintossicazione) non si dà più per 2, 3 o 6 mesi come prima. Per la stabilizzazione bastano sette, o otto giorni”.
Ma è la rete dei servizi che mostra la corda. “Dal ‘96 al 2005 - racconta Emanuele Scalato, dell’Istituto superiore di sanità - gli alcolisti presi in carico sono aumentati del 150 per cento: da 29mila a circa 54mila. C’è stata una notevole attivazione del servizi, che però non hanno avuto più personale e risorse a disposizione”.
Il Piano sanitario nazionale alcol e salute, approvato il 29 marzo scorso, prevede un investimento di 4,5 milioni di euro per rinforzare e coordinare tutte le attività di prevenzione e presa in carico. La sanità, tuttavia, è materia regionale. “Sembra che le Asl abbiano tutto in testa, tranne gratificare e sostenere le équipe per le tossicodipendenze, che si occupano anche di alcolismo - denuncia la psicologa Maria Raffella Rossin -. C’è la tendenza a smantellare i servizi e a mandare tutti i pazienti in comunità. Qui in Lombardia, chiedono solo distare dentro ai costi”. Per Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento dipendenze dell’Asl di Milano, il problema è più generale: “Manca una strategia, basata su obiettivi specifici da raggiungere In tempi certi. E manca il raccordo con i servizi”.
Una rete sfilacciata, anche a livello di reparti ospedalieri: “Sicuramente per l’abuso si fa ancora poco - sostiene Paolo De Lutti, per tredici anni responsabile del servizio di alcologia all’ospedale provinciale di Arco di Trento -. Il personale medico italiano non ha una preparazione specifica. In ospedale, l’intervento è troppo breve, insufficiente e risente di un atteggiamento anche moralistico nei confronti del malato”.
Per riuscire a intercettare le persone che hanno problemi di alcol, occorre un maggiore coinvolgimento dei medici di base. Il progetto di sostegno alcologico, sperimentato nella provincia di Pordenone con un accordo tra Medicina generale e Asl, ha dato buoni frutti. A ottobre, all’Istituto superiore di sanità partirà il primo corso per insegnare ai medici ad utilizzare l’Audit, il sistema di valutazione del rischio alcologico elaborato negli Stati Uniti.
Sul versante delle associazioni, gli Alcolisti anonimi, che dal 21 al 23 settembre si raduneranno a Rimini, hanno stipulato un accordo di collaborazione con la Fimmg (Federazione medici di medicina generale).
Perché i medici di famiglia non lo fanno in modo sistematico? “Perché il nostro sistema sanitario è organizzato a compartimenti stagni - spiega Giacomo Milillo, segretario generale Fimmg-. È solo questione di organizzazione e non di natura economica. Abbiamo fatto una proposta di riforma del servizio, non legata alle singole cose ma a un investimento sull’assistenza territoriale”.

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