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Corriere Della Sera

Il conformismo a tavola (e nell’arte) ... Essere invitati a cena in un albergo elegante, a non so quante stelle, può costituire una occasione piacevole, tanto più se viene anticipato che lo chef è un asso del mestiere. E non ho nessuna esitazione nell’ammettere l’importanza d’un grande cuoco, alla pari di quella d’un grande stilista, attore o cantante. Ma purtroppo anche in questo caso de gustibus si tratta e qui il disputandum è indispensabile.

Perché, purtroppo dovevo subire una totale delusione in quella occasione. E questo perché? Proprio per colpa di quella che va sotto il nome di nouvelle cuisine. Nuova, soltanto in quanto fa di tutto per alterare e corrompere le grandi “leggi” del tradizionale e quasi sempre eccellente cibo locale; con l’illusione di migliorarlo a base di assurde frammissioni, di sughi e salsette eteroclite, contrarie a ogni efficacia gustativa. La cosa sembrerebbe di poco conto: basta rassegnarsi a saltare il pasto, o almeno a separare, per quanto è possibile sul proprio piatto, il cibo autentico dalle appendici morbose che il cuoco gli ha aggiunto.

Senonché, questa cucina - tutt’altro che nuova, e non ancora molto diffusa nel nostro Paese - sta corrompendo quelle che erano alcune tra le più raffinate cucine del mondo: penso alla nostra cucina piemontese, siciliana, ligure, e potrei citare anche altre pensando a certi “piatti” locali come il “macco” siciliano, la “jota” triestina, la “torta pasqualina” genovese, la “bagnacauda” piemontese. Tutto un patrimonio secolare che rischia di andare disperso o corrotto. A questo punto - giacché non vorrei ergermi a competente nelle arti culinarie (anche se non credo di esserne del tutto “digiuno”: l’aggettivo giunge a proposito), vorrei estendere il mio discorso a un ambito molto più vasto: quello del conformismo generalizzato. Ebbene: nelle peccaminose esemplificazioni culinarie di cui sopra uno degli aspetti più determinanti è quello che definirei il “peccato di conformismo”. Perché diventano “di moda” abitudini e comportamenti che non presentano nessuna autentica qualità (il che vale anche per l’arte, la moda, il costume), ma che vengono scimmiottati pedestremente tanto da coloro che li esercitano quanto da coloro che li “subiscono”? Nel nostro caso non si tratta soltanto dell’adeguamento da parte del cuoco che vuole essere à la page; ma quello che è più grave del “cliente” che ingurgita il cibo massacrato senza nessuna remora anzi mostrando di gustarlo. La spiegazione è semplice, perché buona parte della popolazione preferisce adattarsi ai dettami della maggioranza oppure a quello del relativo “clan” di appartenenza. Giacché esiste un conformismo “di maggioranza” ma anche quello rispetto alla “minoranza”; ancora più condannabile perché intinto dall’aura nobilistica.

Se poi, per elevare il tono di questa nota ammonitrice, ci rivolgiamo al settore di un’altra “analisi gustativa”, quella dell’arte, vedremo verificarsi un fenomeno in certo senso analogo: accade spesso che venga accettata una determinata tendenza dell’arte o del design soltanto perché è stata iniziata da artisti già noti per la loro presunta originalità piuttosto che per una autentica qualità innovatrice. Eppure, per concludere questa minima notazione attorno a “organi di senso” così diversi e così spesso analizzati come se si equivalessero, una differenza sostanziale tra gli stessi, tuttavia, deve essere sottolineata: mentre nel caso del cibo ritengo si debba mantenere, quando è possibile, l’identità storica e tradizionale; nell’arte è proprio la tradizione, ormai obsoleta, che deve essere superata e abbandonata.

Per cui andremo sempre alla scoperta di nuove tendenze artistiche, anche se ci sembrano discutibili; ma preferiamo conservare il più possibile le ancestrali “ ricette ” d’una cucina tradizionale, scartando quelle della nouvelle cuisine.

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