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Corriere Della Sera

Terredora, l’eredità di Lucio Mastroberardino ... Lucio Mastroberardino aveva 45 anni quando, il 29 gennaio scorso, è stato vinto dalla malattia. Era l’uomo simbolo dell’Irpinia migliore. Era il presidente dell’Unione italiana Vini. A meno di tre mesi dall’addio, la sua azienda, Terredora, si rialza in piedi. Con un premio, l’Internazionale Vinitaly 2013. E con la tenacia pacata del fratello e della sorella, Paolo e Daniela. “Solo il vento è la permanenza del tempo in Irpinia”, ha scritto Emilia Bersabea Cirillo (“Il pane e l’argilla”, Filema), raccontando di paesi svuotati dall’emigrazione. La storia di Lucio e della famiglia dimostra che la tendenza si può invertire.
Terredora nasce da una scissione familiare. Nel 1994 si dividono le strade di Antonio e Walter Mastroberardino, i fratelli a capo della cantina di famiglia che si occupa di vino del 1700. Un pezzo di storia del vino italiano, con il merito di aver studiato e recuperato i vitigni classici greci e romani. A Montefusco, antico capoluogo del Principato d’Ultra, Walter si dedica a Fiano di Avellino, Greco di Tufo, e Aglianico, dai cui nasce il Taurasi. E poi anche a una Falanghina finita nel 2006 tra i 100 migliori vini al mondo secondo “Wine spectator”. Duecento ettari (l’azienda viticola più estesa della Campania), più di un milione di bottiglie. La formula di famiglia: coltivazione di vitigni millenari con tecniche moderne. “Un faro per l’Irpinia - racconta Daniela Mastroberardino, 45 anni -. Adesso, dopo la scomparsa di Lucio, stiamo ripartendo come si fa nelle aziende familiari, dividendoci i compiti, saldi dopo una tragedia. Il premio di Verona è una spinta a proseguire sulla strada di Lucio”. Paolo Mastroberardino, 52 anni, è enologo come lo era Lucio. Si occupava della rete commerciale, ora è tornato in cantina al posto del fratello che non c’è più. Daniela, 45 anni, ha rimpiazzato Lucio nell’export. È questo il settore che ha bisogno di più energie. Terredora esporta circa il 35 per cento delle proprie bottiglie. “Vogliamo continuare a stare nei mercati in cui Lucio aveva ottenuto risultati importanti - spiega Daniela - come gli Stati Uniti. Lì possiamo spiegare ai consumatori quanto sia forte il legame del nostro vino con la nostra cultura. Ma non ci possiamo arroccare, stiamo puntando anche sulla frontiera asiatica. È cominciato un nuovo capitolo della nostra storia, è il momento di ripartire per una nuova fase di crescita”. I fratelli Daniela e Paolo assicurarono che le idee di Lucio saranno rispettate. “Il suo modo di lavorare è stato la carta vincente in questi 20 anni. Non ha mai voluto fare vini con l’impronta di un consulente, seguendo le mode. Ha sempre cercato di rispettare il patrimonio dei vigneti di questa zona. Come ha fatto nel 2003 con i Taurasi: avevamo già due cru, ma lui ha scommesso su un terzo, il Pago dei Fusi, sfidando chi prevedeva che la gamma dei vini di fascia alta fosse troppo affollata. E lo fece perché sosteneva che ogni cru ha una sua identità precisa e distinta. Ha avuto ragione”. Ora gli effetti degli scissione sono svaniti. Citando Gian Battista Vico, Daniela parla di una vita familiare con differenti fasi (la progressione fino alla crisi però, in questo caso, ha portato alla ripartenza). “Nostro padre Walter e lo zio Antonio, con i diversi passaggi generazionali, hanno avuto a una certo punto una visione differente del futuro. Cose che succedono nelle famiglie. Ma adesso i rapporti tra i due rami sono buoni”. “Siamo al centro di rotte e secoli di storia del vino - dice ancora Daniela - dall’era dell’Antica Roma. Quando l’Irpinia venne colonizzata, i soldati romani vennero qui portando le loro viti. La Campania era in passato quello che è diventata la Napa Valley nel Novecento. Pompei è uno dei primi esempi della valorizzazione del vino nell’antichità. Dobbiamo riappropriarci di questo passato. Era questo il sogno di Lucio”.


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