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Corriere Della Sera

Il “francescano che racconta l’Umbria ... Lungarotti, il Rubesco e quella frase di soldati ... “Questo vino è come noi umbri, chiusi all’inizio, accoglienti appena c’è un po’ di confidenza”. Chiara Lungarotti ha portato a Milano una bottiglia di Rubesco 2010, che fra poco sarà sul mercato. E’ una ragazza di 40 anni, innamorata del figlio Bruno di 6, con il quale gioca a correre a piedi nudi in campagna, e del marito, anche lui vignaiolo, toscano. Il Rubesco è nato prima di lei: 50 anni fa. E’ il vino bandiera delle cantine Lungarotti. Un vino dai grandi numeri: da 400 mila a 550 mila bottiglie l’anno. Conosciuto in tutto il mondo soprattutto nella versione Riserva, più austera, che beneficia di un maggiore invecchiamento in barriques invece nelle botti grandi. Descritto così sembra il contrario di quello che Mario Soldati scrisse quando capitò in Umbria nel 1975. “I vini veri devono restare quasi ignoti appunto per restare veri”. Il registra-gastronomo scrittore in “Da leccarsi i baffi” (appena ristampato da DeriveApprodi, 315 pagine, 17 euro), descrive vini meravigliosi e sconosciuti (l’Almonte, suggeritogli da Ginevra Bompiani), come quelli trovati in Piemonte (il Ghemme, “un Gattinara più spesso e violento, più genuino perché meno famoso”) o in Campania (“ l’Asprino, un grande piccolo vino, il bianco più secco al mondo”). Per Soldati il vino non è mai un “oggetto staccato e astratto, che possa essere giudicato bevendo un bicchiere. Bisogna andare al vino, affondare il piede nella terra e guardare negli occhi chi lo fa, perché il vino racconta quella terra, quel mondo”. In questo il Rubesco non tradisce, è il racconto dell’Umbria. A partire dall’etichetta con la formella della vendemmia della Fontana Maggiore di Perugia, del tredicesimo secolo. La bottiglia arriva a tavola con un piatto di pasta al pomodoro. Il vino color rosso rubino non sovrasta il cibo, garantendo poi un buon accostamento anche con una ciotola di frutti di bosco. Il Rubesco è un assemblaggio di uve Sangiovese e Canaiolo, con il nuovo ingresso, nell’ultima versione, di un dieci per cento di uve Colorino che lo rafforzano. E’ un vino pacato, che non scalpita, amichevole, con odori di frutta rossa e un corpo carnoso. Chiara Lungarotti lo definisce “francescano”. E aggiunge: “Un giovane di 50 anni che non sta sempre in guardia come i Sangiovesi toscano”. E’ stato il padre Giorgio, mezzo secolo fa, a trovare il nome, usando il verbo latino rubescere, ovvero arrossire. Dopo il addio, nel 1999, sono le sorelle Chiara e Teresa Severini a guidare il gruppo umbro, 250 ettari tra Torgiano e (più di recente) a Montefalco: più di 2 milioni di bottiglie esportate in 50 Paesi, 120 dipendenti. Il Rubesco fermenta 15 giorni in acciaio, poi trascorre due anni di affinamento. tra botte e bottiglia. La Riserva Vigna Monticchio, invece, viene affinato tra barriques e bottiglia fino a 5 anni (erano 10 con la passata generazione dei Lungarotti, “ma il gusto cambia e si evolve verso un peso minore e uno stile più moderno”). Fin dall’inizio, nel 1964, è prodotto con le uve di una sola vigna, un cru, appunto, di 20 ettari. E’ un classico tra i vini italiani, con una longevità che raggiunge i 35 anni. “Poco tempo fa abbiamo aperto una bottiglia del 1966. Era ancora valida”, racconta la figlia di Giorgio Lungarotti. L’ultima annata, la 2007, ha raccolto il punteggio massimo (3 bicchieri e 5 grappoli) dalla guida del Gambero rosso e di Duemilavini, quella dei sommelier. Viene venduto a 30 euro, mentre la versione base non supera i 10 euro. Eppure è del meno titolato tra i due vini che Chiara preferisce parlare. “Sento che è il mio vino, mi piace e voglio girare il mondo per raccontarlo e venderlo. E’ carico di storia ma fresco”, dice. Il modo migliore per conoscerlo, e scoprire così anche il Museo del vino creato dalla madre delle sorelle Lungarotti, definito dal “New York Times”, il migliore del settore, è viaggiare verso l’Umbria e assaggiarlo nell’“umbelico d’Italia”. Perché, come scriveva Soldati, “bisogna andare a vino: non che il vino venga da te”.

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