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Corriere Della Sera

Un’antropologa raccoglie le voci del Moscato ... Che ci fa una seguace di Claude Lévi-Strauss, studioso di miti e tabù, tra i vignaioli del Moscato d’Asti? Cosa cerca un’antropologa tra le vigne? Documenta una cultura che sta mutando, quella dei piccoli contadini che raccontano davanti a una videocamera come è cambiato un pezzo di Piemonte nell’ultimo mezzo secolo. Un viaggio certo meno esotico di quello che Lévi-Strauss organizzò nel 1938 tra gli indios dell’Amazzonia, scoprendo il complesso rituale che prevedeva anche la presenza di donne vergini per far fermentare il vino di mais. Quella di Marinella Carosso, docente di Antropologia culturale all’Università di Milano-Bicocca, è stata una spedizione senza carovane, priva di pericoli, incidenti e malattie come fu quella del suo maestro. Un viaggio a un’ora di auto da Milano, nel paesino di Coazzolo, 300 abitanti, in provincia di Asti. Ventitrè ore di riprese, durante la vendemmia 2010, tra i filari con i contadini che in dialetto piemontese raccontano i vitigni scomparsi e il bisogno di far crescere “uva buona, perché quella cattiva non serve a niente e non si vende”. Il risultato è un documentato firmato anche dal filmaker francese Daniel Jouanisson. Si chiama “La Voce dei luoghi”, 26 minuti, con i sottotitoli che traducono il dialetto: domenica scorsa è stato presentato e consegnato alle famiglie di Coazzolo, nella zona del Moscato d’Asti docg, uscito da un periodo di crisi ed ora in grande ascesa soprattutto negli Stati Uniti (più 38 per cento nel 2012, una bottiglia su due finisce dal Piemonte in America) . “Un contributo antropologico - dice Marinella Carosso - alla candidatura dei paesaggi vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato come Patrimonio dell’Umanità tutelato dall’Unesco. I veri artefici del paesaggio sono i vignaioli come loro”. Sono volti quasi sempre di anziani quelli che compaiono nel documentario e che sono protagonisti anche di una mostra fotografica con gli scatti di Jouanisson e di Gianmaria Corsi. Accanto ai nonni, corrono i bambini, tra le vecchie ceste di vimini, rattoppate con il fil di ferro. Una signora dagli occhi azzurri e dai capelli bianchi racconta che “qui una volta c’erano solo boschi”. Guida il trattore e ride: “Sono diventata moderna da vecchia”. Tutti superano l’imbarazzo per la videocamera con un sorriso, indicano le loro case e le loro vigne, nome per nome, sulle colline. Dicono che l’era della quantità è finita. “Se tornasse al mondo mio padre - proclama un signore a torso nudo e calzoni corti sotto un cielo pieno di nuvole - ci direbbe che siamo diventati matti. È mancato 25 anni fa, allora tra le vigne raccoglievamo anche gli acini caduti, adesso si buttano via grappoli interi. Inutile fare tanta roba, ché poi il mercato non la vuole più”. Si passa tra i filari ad agosto, spiega un suo coetaneo, si tolgono i grappoli in eccesso, ne restano solo 7-8 per pianta, “che diventano più buoni. Si tribola già a vendere così”. Le famiglie trascinano da generazioni il proprio soprannome, dal battesimo alle epigrafi funerarie. Gli Abbate sono più conosciuti come Paiùn, pare perché tra gli avi ci fossero due signore alte, così alte da essere chiamate Paglialunga. Si intrecciano i ricordi di eventi terribili, straordinarie forme di potenza naturale. “Ne ho viste delle belle io: dal 1932 al 1939 - rammenta un baffuto viticultore accanto a una piramide di uve Moscato - sette anni di grandinate. Eravamo in processione il 5 giugno del 1932, arrivò un temporale, sembrava fosse tornato l’inverno e ci rifugiammo in chiesa. Quando uscimmo non c’era più una foglia sulle piante e tutti gli uccelli erano morti”. E poi gli anni della mezzadria. “Quando il Moscato non si riusciva a vendere. Ma dal 1940 al 1980 queste campagne erano piene di gente, anche solo per guadagnare quattro soldi, ci si strappava la terra uno con l’altro. Il lavoro non ci faceva paura”. Sono persone che vivono la campagna come fosse una stanza di casa. “Le vigne devono essere pulite, belle, senza erbacce, noi diciamo ad “onor del mondo””. L’artigiano delle ceste, magro e felice, ha smesso perché ora “tutti vogliono quelle bacinelle di plastica”, ma ha ancora le vigne. “Il boom del Moscato è stato tra il 1960 e il 1970 - ricostruisce - non ce n’era così tanto. Quelli di Asti compravano le nostre uve solo se vendevano anche un po’ di Freisa, che andava da matti, ormai non la pianta più nessuno, non piace più”. In quegli anni in ogni casale si allevavano animali, mucche e maiali. Poi le stalle sono state chiuse. “Dall’85 in poi tutti hanno piantato vigne. E il paesaggio è diventato una cannonata, sulle colline ci sono solo vigne che cambiano di colore stagione dopo stagione”. E adesso? Con la nipotina di due mesi in braccio, la nonna dagli occhi azzurri sul trattore dice che un’epoca è finita: “Se voglio che da grande mia nipote lavori in campagna? No, l’ho già fatto io. Adesso basta”. Questo il mondo che sta sparendo tra i filari del Moscato.

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