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Corriere Della Sera

L’Indiana Jones delle vigne ... Franceschet non è nato a Venezia, ma ha la laguna nell’anima più di molti altri “pigri veneziani della classe media che si infingardiscono leggendo giornali privi di contenuti”, descritti da Ruskin. Viene da Tarzo, in provincia di Treviso. Invece di portare le sue classi al Museo Naturale, ha creato percorsi di archeologia botanica, puntando sulla scoperta non delle pietre ruskiniane che raccontano una potenza sparita, ma delle tracce di vita vegetale trascurata. Nel verde celato dalle splendide facciate sui canali, cresceva talvolta l’uva, come nei luoghi di ritiro religioso e accanto ai piccoli orti nelle terre emerse in mezzo all’acqua. L’avventura di Franceschet è iniziata con una sorta di fattoria didattica nell’isola di Mazzorbo, dove poi è arrivato con ben altri mezzi Gianluca Bisol, della famiglia del Processo, piantando l’antico vitigno Dorona assieme al super enologo Roberto Cipresso. Da Mazzorbo è partita l’ambizione di catalogare tutti i vigneti della città. Con Franceschet altri tre pionieri: l’oste Mauro Lorenzon, grande e gioviale conoscitore di vini italiani e francesi; Cesare Benelli, che da quasi 30 anni officia nel ristorante Al Covo; e l’enotecnico Gianantonio Posocco, esperto di vini biologici e biodinamici. E’ nata un’associazione no-profit, non poteva che chiamarsi “Laguna nel bicchiere – Le vigne ritrovate”. Ha appena ricevuto il Premio Masi Civiltà del Vino, assieme a Bisol e a Michel Thoulouze, imprenditore televisivo diventato vignaiolo a Sant’Erasmo. I ragazzi delle scuole e gli insegnanti sono stati coinvolti nelle vendemmie e nelle micro-vinificazioni. I percorsi delle scoperte e della rinascita della tradizione vitivinicola veneziana che esisteva fin dall’era dei paleoveneti, sono diventati itinerari turistici: vengono organizzate esplorazioni per i veneti (ma spesso si presentano agli appuntamenti anche visitatori americani). Franceschet fa da guida, esorta a camminare in silenzio tra i vigneti e le fondamenta delle isole, per ascoltare i rumori della laguna. E sembra di risentire le voci dei piccoli vignaioli del passato che zittiscono il luogo comune secondo il quale a Venezia “il vino non si può fare perché il terreno sabbioso non è adatto”. Sono spuntate vigne in luoghi impensabili, di età indefinite. Una pergola al cimitero di Murano, ad esempio, o un filare a poca distanza dall’Harry’s dolci alla Giudecca. E poi le uve raccolte dai frati e usate per il vino da santificare e per quello che accompagna i pasti nei refettori. Ecco i filari di Moscato dei Carmelitani scalzi accanto alla chiesa sul Canal Grande in cui sono conservate le reliquie di Santa Lucia, ecco i tralci potati di Moscato, Malvasia, Prosecco e Trebbiano dei Frati minori francescani nell’isoletta di San Francesco della Vigna; ecco i grappoli di Trebbiano e Raboso dei Frati Servi di Maria all’estremità di Venezia, a Sant’Elena. E poi tre pergole di uva sull’isola di San Michele, poco distanti dal cimitero con la tomba del poeta Ezra Pound, un tempo sede della prigione in cui venne rinchiuso anche Silvio Pellico: tre pergole che erano state abbandonate dall’anziano frate Andrea dei Camaldolesi. Ne escono vini senza fronzoli, orgogliosi di essere ancora vivi e buoni. Vengono prodotti in modo più che tradizionale, con la pigiatura umana, infilando le gambe nei tini. Hanno tutti un’etichetta simile: un bicchiere sullo sfondo di un acquarello di paesaggi veneziani immersi nella foschia, talvolta resi meno melanconici dall’uso di colori decisi. Il vino più scanzonato si chiama “Primo sbaglio”, sull’etichetta si legge: “Vino di pergola, prodotto a sei piedi da 600 grappoli di uve incerte” dall’Arsenale, la zona dell’antico cantiere navale cantato da Dante. Così sono riapparsi piccoli pezzi di Venezia lontani dal turismo di massa. È una piccola storia di rinascita in una città soffocata dai visitatori e percorsa da grandi navi. Una storia induce a chiudere il libro di Ruskin e a leggere una poesia di Andrea Longega sui veneziani che resistono. Eccola, con la traduzione: “Semo lontre nuialtri venessiani / semo rane, e no stene creder / co se lagnemo de l’aqua che cresse…/ dentro quel aqua se inpianta / le nostre raìse / e co serve come i sorzi trovémo sempre na piera più alta – na sfesa / che ne salva (Siamo lontre noi veneziani | siamo rane, e non credeteci | quando ci lamentiamo dell’acqua che sale… / dentro quell’acqua si piantano/ le nostre radici/ e quando serve come topi troviamo/ sempre una pietra più alta – una fessura/ che ci salva).

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