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Corriere Della Sera

Il calice Tricolore ... Il vinitaly compie mezzo secolo L’italia ora è molto più sobria ma dà valore al suo oro liquido... L’appuntamento A Verona la 50esima rassegna internazionale, cominciata nel 1967 con alcune centinaia di operatori e oggi visitata da 150 mila persone. Così il nostro Paese ha superato i momenti bui, migliorando la qualità e modernizzando la produzione... Quando l’inviato del “Corriere della Sera” arrivò a Verona per raccontare il primo Vinitaly, trovò solo “alcune centinaia di tecnici, esperti e operatori italiani e stranieri”. Non l’esercito odierno di 15o mila visitatori. Era il 22 settembre 1967. Il Nordest aveva fame di tutto, case e schei. Il poeta veneto Andrea Zanzotto inveiva contro le “villette benessere che oscurano con la loro caotica disseminazione ogni angolo del paesaggio”. L’inviato a Verona conquistò poche righe in una pagina interna del Corriere. Spiegò che la “vitivinicoltura è un’attività agricola di preminente interesse economico e sociale per l’intero paese”. Perché “non vi è provincia che non tragga dall’uva e dal vino un certo reddito”. Il Vinitaly (il nome originale era “Giornate del vino italiano”, due giorni di convegni al Palazzo della Gran Guardia) stava già diventando lo specchio (bianco, rosso e rosato) dell’Italia. Un’Italia, quella del 1967, dalle botti piene: 65 milioni di ettolitri prodotti (contro i 47 dell’anno scorso) e un consumo da ebbrezza, “una media per abitante di 106 litri”, mentre ora siamo a quota 33 litri. C’erano già grandi etichette italiane: il Brunello di Montalcino di Biondi Santi, il Barolo di Giacomo Contemo, stava per nascere il Tignanello dei Marchesi Antinori. All’inizio, le “Giornate” veronesi si limitavano a qualche ora di convegni più o meno tecnici. Due anni dopo arrivarono le bottiglie. C’è un gruppetto di 42 “senatori” che dall’inizio ad oggi non ha saltato un’edizione: dai veneti Allegrini, Bertani, Bolla, Guerrieri Rizzardi, Sartori e Tedeschi ai piemontesi Braida e Marchesi di Barolo, fino ai toscani Cecchi e Marchesi de’ Frescobaldi. Mario Soldati, dopo aver scritto il miglior eno-libro d’Italia (“Vino al vino”) arrivò a Verona nella veste di battitore d’asta di “vini pregiati”: era il 1971. Ci sono state anni mesti, come il 1986, sotto la croce dello scandalo del metanolo. “Facevo il militare in Friuli Venezia Giulia - ricorda Andrea Cecchi, uno dei “senatori” - dalla mensa della caserma sparì il vino, da casa mi avvisarono di tornare, gli ordini dall’estero venivano annullati. Fu un Vinitaly triste, dopo tutti quei morti”. Una batosta, ma anche uno spartiacque. Da li iniziò il Rinascimento del vino italiano. Assieme alla qualità è cresciuto l’export. Di pari passo il Vinitaly, con il direttore di Verona-Fiere Giovanni Mantovani, è diventato un gigante da centomila metri quadrati per 4.100 espositori da un centinaio di nazioni. E, anno dopo anno, il carattere festoso da fiera ha lasciato sempre più il posto all’intento di diventare una vetrina internazionale per il vino italiano. Una spinta l’ha data OperaWine, l’evento che apre il Vinitaly con una selezione di 101 cantine in collaborazione con gli americani di Wine Spectator. Un’altra la daranno il Premio 5 Star Wine (condotto da Ian D’Agata e Stevie Kim), che prende il posto, dopo 22 anni, del Concorso enologico, con una giuria di esperti da tutto il mondo, divisi per aree geografiche di provenienza dei vini, e il Premio Wine Without Walls per i vini naturali e guidato da Alice Feiring. Nel 1967 si esportava il 4% del vino italiano, adesso l’incasso delle vendite nel mondo è da record: 5,4 miliardi. Il Vinitaly è stato il filo conduttore di questo successo. Non sono state esportate solo montagne di bottiglie, ma un’idea di bellezza italiana, di luce, di voglia di stare assieme. Hanno trovato spazio i piccoli vignaioli, dimostrando che bere “è un atto agricolo”, che si può evitare il gusto semplificato della produzione di massa e scegliere i multiformi autoctoni di cui il Belpaese è ricco. L’Italia del vino ha capito che “difendere le piccole proprietà agricole equivale a difendere la Costituzione”, come proclama l’ambientalista americano Wendell Berry. Nel suo viaggio a Verona l’inviato del Corriere indicò le priorità. Sono le stesse di oggi: “Migliorare gli impianti e le strutture viticole, affinare le tecnologie enologiche, stroncando le frodi, ma soprattutto modernizzare i sistemi di commercializzazione adattandoli ai tempi nuovi”. Tanto meglio se si riuscirà a farlo salvando la terra, le vigne e la memoria. Perché, come scriveva Zanzotto nel 1967, l’antidoto al paesaggio delle villette è la sopravvivenza delle “semplici dimore rustiche in cui gioirono e soffrirono gli avi”.

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