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Corriereconomia / Corriere Della Sera

Vino. Aziende troppo piccole
per sfondare nel grande Paese ... A volte
punti forti e debolezze sono due facce della stessa medaglia. Lo sa bene
il mondo del vino italiano alle prese con la parte finale di una vendemmia che si annuncia complessa a causa dell’estate atipica appena trascorsa. La biodiversità
e la varietà di vitigni autoctoni sono certamente due tra le più importanti carte che l’enologia italiana
può giocare sul tavolo della competizione internazionale. Il tema della biodiversità tornerà spesso da qui all’anno prossimo quando
sarà uno dei pilastri dell’Expo di Milano. La possibilità da parte delle cantine di presentarsi ai
mercati stranieri con una gamma tanto ampia di vitigni, è un vantaggio che produce i suoi effetti nell’export, al punto che l’Italia anche quest’anno è in testa alla classifica dei Paesi esportatori (per quantità di produzione) superando Francia, Spagna, Cile, Australia e Usa. Però, analizzando i dati, si scopre che dietro Stati Uniti, Germania e Regno Unito mancano alcuni grandi mercati che potrebbero generare un ulteriore salto di qualità per il sistema. Le cantine raggiungono i cinque continenti con ottimi risultati in termini di quantità e di ricavi economici ma la grande lacuna, almeno al momento, è la Cina. Su un territorio tanto vasto e complesso la biodiversità da forza si trasforma in debolezza. “C’è bisogno di tempo e competenza - afferma Alberto Tasca d’Almerita, amministratore delegato dell’azienda di famiglia, una tra le più blasonate cantine italiane -. La tipicità dei vitigni italiani non è semplice da spiegare all’estero, servono pazienza e attenzione. Spesso invece il marketing del vino chiede tempi rapidi e veloci. Noi abbiamo puntato prima a farci conoscere per la qualità dei vitigni internazionali, per poi far provare al mercato gli autoctoni siciliani. Proprio la Sicilia è un ottimo esempio di made in Italy: offre una varietà di territorio (lavico, salino, argilloso) che nessun altro possiede. Allo stesso modo l’Italia offre una gamma di denominazioni e appellazioni che nemmeno Francia e Spagna possono vantare”.
Un assortimento che può diventare un limite quando non si riesce a fare sistema nell’approccio a mercati molto diversi e complessi come quello cinese. “In Cina la sfida è molto alta - ammette il ceo di Conte Tasca d’Almerita - Si tratta di un mercato sconfinato con ritmi e regole profondamente diverse dalle nostre, questo significa che bisognerà muoversi in modo strutturato: lo sta già facendo Federvini in collaborazione con l’Ice e sono convinto che tra qualche anno, l’export verso la Cina assumerà un peso considerevole.
Intanto varrebbe la pena
concentrarsi su una destinazione
fondamentale come quella degli
Stati Uniti che rappresenta un
mercato in piena evoluzione ma di
vitale v: portanza per i vini italiani.
Diversità ed export sono due temi
fondamentali anche per il Prosecco,
uno dei testimonial più efficaci
dell’enologia italiana.
Anche in questo caso però la
frammentazione oscilla tra l’opportunità
e l’ostacolo: il Prosecco
infatti è diviso tra la zona storica
collinare (con una produzione di
nicchia) e quella di pianura (che
produce il maggior numero di bottiglie).
“La differenziazione non è
per forza una debolezza - sottolinea
Innocente Nardi, presidente
del Consorzio Prosecco Conegliano
Valdobbiadene - è giusto preservare
la storia e la tipicità dei vitigni
ma non ci si può presentare ai
grandi mercati con un basso numero
di bottiglie. Il sistema italiano
deve individuare le aree di produzione
capaci di fare grandi numeri
per presentarsi negli Usa, in
Cina o nel Regno Unito. Con le macroaree
e i grandi numeri si ottengono
i contratti con i buyer internazionali.
All’interno di una tipologia,
per esempio il Prosecco, si
spiegherà quali sono le produzioni
di eccellenza. Quantità e qualità
non sono antitetici: noi puntiamo a
diventare l’elite delle bollitine però
parliamo di italianitá”.

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