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La storia - Vino batte mafia …Vino batte mafia. La Sicilia si interroga sul proprio futuro e scopre tra i vigneti di nero d’Avola e di chardonnay una via originale di riscatto e di crescita. Se gli investimenti industriali esteri sull’isola latitano (in due anni una caduta del 70%) ci sono i signori del vino che continuano ad investire, a comprare terre, a ristrutturare vigneti, a creare lavoro e indotto, a costruire cantine e agriturismi. Arrivano dal Nord i nuovi vignerons siciliani e affiancano i grandi nomi dell’imprenditoria autoctona, i Tasca d’Almerita, i Rallo, i Planeta, i Cusumano, quelli che hanno fatto il miracolo di trasformare un’isola che produceva solo cisterne di vino anonimo, buono solo per tagliare i vini del nord Europa, nel terzo territorio del grande vino italiano dopo Toscana e Piemonte. Una California mediterranea che ha attirato negli anni passati nomi illustri: il più grande imprenditore vitivinicolo privato italiano, Gianni Zonin, nel cuore dell’isola ha acquisito il Feudo Principi di Butera; il gruppo veronese Giv (controllato dai colossi del vino cooperativo come Riunite e Civ & Civ) nella valle del Belice ha acquisito Tenute Rapitalà, uno dei marchi più blasonati. Per non citare che due casi. Adesso gli ultimi colpi sono targati Toscana e Veneto. Antonio Moretti, aretino doc, imprenditore di successo nel settore moda-pelletteria (il boom con la catena Modi & Moda, suoi i marchi Arfango, Bonora e Carshoe) ha ereditato dal padre la passione del vino.

Possiede già la Tenuta Sette Ponti nel Valdarno aretino, acquistata dal padre Alberto negli anni Cinquanta dalle principesse Margherita e Maria-Cristina di Savoia. Con l’enologo Carlo Ferrini si mette a produrre rossi supertuscan: fa centro con Oreno, un blend superpremiato dagli americani di Wine Spectator.

Moretti ama le avventure. Viaggia in Sicilia, s’innamora del barocco e della Val di Noto, tra la Siracusa di Archimede e Ragusa. Assieme alla figlia Monica comincia a comprare terreni (qui si chiamano ‘tumuli’), riunisce oltre 50 proprietà. Un’impresa immane. Siamo all’estremità sud della Sicilia, a pochi chilometri dal mare, in una zona che beneficia di un microclima straordinario. E’ il regno del nero d’Avola. Nasce Feudo Maccari, 100 ettari, di cui la metà di vigneti ad alberello, come tradizione vuole. Arrivano le prime bottiglie importanti: Saia, un nero d’Avola dal grande avvenire, poi un Rosso di Noto.

Moretti è innamorato della Sicilia: “Una terra fantastica, il futuro del vino. In una fase di congiuntura sfavorevole, il fattore prezzo è decisivo. Senza rinunciare alla qualità. Qui grazie alla terra, al clima, è facile fare qualità. Per competere con successo dobbiamo proporci con prezzi inferiori ai principali competitor, in primis i francesi. Poi non va sottovalutata la distribuzione del prodotto: scegliere partner commerciali qualificati, consolidare i rapporti con i partner all'estero, studiare nuovi scenari di mercato emergenti”.

Dalla Toscana al Veneto. Qui il conte Paolo Marzotto, azionista di riferimento del gruppo di Valdagno (che controlla grandi marchi enologici come Santa Margherita, Kettmeir, Cà del Bosco) ha deciso di investire in Sicilia per conto proprio. Obiettivo: una cantina di quantità ma soprattutto di qualità. Suo partner (col 2%) l’enologo Fausto Maculan, il re del ‘torcolato’, che ha portato i vini vicentini ai vertici dell’attenzione mondiale. Le zone scelte per l’investimento sono Pianetto a Santa Cristina Gela (sulle colline a sud di Palermo) e Baroni a Noto (Siracusa). E’ nata così l’azienda Baglio di Pianetto, 160 ettari, 11mila metri quadrati di cantina e un relais-chateau che sarà pronto a giugno con piscina e Spa. Investimento totale: 30 milioni di euro.

I vini rispetteranno tradizione e innovazione. Autoctoni come nero d’Avola e Insolia, ma anche internazionali come Viognier, Merlot e Petit verdot. Il regime di lavoro è quasi da coltura biologica: niente concimazioni chimiche, solo un paio di trattamenti con zolfo in polvere e una cimatura all’anno. Ma Marzotto e Maculan non si fermano qui. Hanno costituito un’altra società (Baglio Morgana) assieme al grande distributore milanese di vini Giuseppe Meregalli per produrre e distribuire in Italia e nel mondo vini siciliani di qualità. Una esperienza innovativa che vede tre nomi leader di settore fare fronte comune, ognuno portando il suo know how. Sicilia terra promessa del vino, ma anche laboratorio di nuove esperienze imprenditoriali.


E sul Nero d’Avola piovono soldi europei

Tre assessori tre. Può essere soddisfatto il conte Lucio Tasca d’Almerita, produttore superblasonato (Regaleali) e patron di Assovini Sicilia, associazione che riunisce il 90% dei vini imbottigliati nell’isola. Alla seconda edizione di “Sicilia en primeur”, anteprima con degustazione dei vini dell’ultima vendemmia, c’era metà giunta regionale (gli assessori all’Agricoltura, al Turismo e alla Cultura) a celebrare i nuovi miracoli del vino siciliano. Il definitivo sorpasso della qualità sulla quantità, con l’export di vino in bottiglia che ha superato in valore quello sfuso: 48,6 milioni di euro contro i 37,3, nonostante l’abissale differenza di quantità vendute. 196mila ettolitri di vino in bottiglia contro oltre 1 milione di ettolitri di sfuso. Poi una vendemmia 2004 tra l’eccellente e l’ottimo: il prof. Attilio Scienza ha dato un rating di cinque stelle ai bianchi e di 4 stelle ai rossi. Le bottiglie esportate (prezzo medio litro circa 3 euro) finiscono principalmente in Europa (67%), poi in America e Canada (13,6%).

“Merito - dice Tasca d’Almerita - di una strategia complessiva che ha fatto sì che il vino diventasse ambasciatore dell’isola nel mondo. Parte da qui il sistema Sicilia: la politica deve approfittare di questo miracolo”. Altro motivo di soddisfazione, l’autentica pioggia di fondi comunitari che sta per piovere sull’isola per ristrutturazione e riconversione dei vigneti: quasi 25 milioni di euro su un totale di 103 milioni assegnati all’Italia nel 2005, praticamente un quarto. Fondi che devono servire per un ulteriore salto di qualità della viticoltura isolana. “La Sicilia oggi ha grandi chances - dice Giacomo Rallo, patron di Donnafugata - ma le imprese devono investire di più in comunicazione, marketing diretto, fare formazione e informazione, puntare su Internet. Dobbiamo migliorare la nostra attitudine all’export e andare alla caccia di nuovi mercati e nuovi consumatori”.

E, aggiungiamo noi, trovare anche forti sinergie con la gastronomia isolana, con il mondo della ristorazione, trovare nuove occasioni di sintesi col turismo fai-da-te degli eno-appassionati. Il professor Scienza parla non di una regione, ma “di un continente vitivinicolo”, per la varietà dei territori, dei climi, delle tecniche di coltivazione, dei vitigni. Accanto agli autoctoni noti (nero d’Avola, catarratto, insolia, grillo, malvasia, zibibbo) e meno noti (nerello mascalese, frappato), le aziende coltivano con esiti sorprendenti i vitigni internazionali (chardonnay, cabernet sauvignon, merlot, syrah) cui il territorio dona tonalità nuove e inconfondibili. La possibilità di fare innovazione attira i giovani.

A Menfi accanto a Planeta e Settesoli, le giovani sorelle Barbera stanno rilanciando le cantine di famiglia con ricerca e vini tutti monovarietali. Tipicità e innovazione sono il motto anche dei fratelli Lena che dal 2002 hanno lanciato i vini Fatascià: alta qualità ma alla portata di tutti. Il made in Sicilia nel vino sta diventando un must. Tant’è che ha preso quota il dibattito se istituire una Doc Sicilia per tutelare il vino isolano dalle contraffazioni. Intanto è arrivata la Docg per il Cerasuolo di Vittoria che si aggiunge alle 21 Doc esistenti. Troppe? Il dibattito è aperto, ma questa volta non riguarda solo la Sicilia.

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