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Finanza & Mercati

Analisi - Allarme, la botte è piena il vino non dà più euforia. Un settore che non ama il rosso. L’Italia in vent’anni ha ridotto la produzione ma il valore è cresciuto, grazie all’export e all’insana corsa dei prezzi. L’esperto Pallanti avverte: “La filiera distributiva è irrazionale e troppo spezzettata”. E la Spagna avanza … Spiacenti, la cantina è piena. Quanti produttori si sono sentiti ripetere, negli ultimi mesi, la frase fatidica nei consueti giri tra le enoteche di pregio del Nord Italia, i wine-bar che pullulano in giro per l’Europa oppure tra i ristoratori con le ambite stelle cucite sulla divisa da maitres. “C’è uno stop generale”, ammette Marco Pallanti, firma d’autore del Chianti, già in classifica su win spectator (91/100 al Chianti Castello di Ama del 1997), su International Wine Cellar (92/100 al Chianti 1999) ed enologo dell’anno del "Gambero Rosso" nel 2003. Il vino risente della crisi generale dell’economia - continua - sia in Italia che in Germania oltre che del cambio del dollaro. E poi ... “Poi? “Si paga quel clima di euforia degli anni passati, quando tutto sembrava crescere all’infinito e i magazzini si sono riempiti a costi insostenibili. E, quel che è peggio, a pagare quelli che meritano”.

Già, la botte è piena. Potrebbe essere questo lo slogan dell’edizione di Vinitaly che apre domani i battenti a Verona. Certo, a giudicare dalle cifre non è il caso di esagerare nei lamenti. E’ vero che l’Italia ha perduto 178.000 ettari (pari alla superficie di vigneto di Piemonte e Sicilia) dall’inizio del 1980 ad oggi, con il risultato di ridurre la produzione da 1.230.000 ettari a 792.000. Ma, fino al 2002, a questa caduta delle quantità ha fatto da contrappeso una grossa crescita del valore (8 miliardi, di cui tre generati dall’export), a tassi del 4-5% annuo nonostante il calo della superficie. Poi, nel 2003, la battuta d’arresto: l’export, in volume, è sceso del 16,6% tallonato dal boom della Spagna (in pochi anni da 30 a 45 milioni di ettolitri di produzione, una crescita delle vendite oltre frontiera a due cifre) e dall’irrompere sulla scena dei nuovi produttori: l’Australia, che ha raddoppiato la sua superficie a vite in dieci anni e che oggi già esporta 6 milioni di ettolitri (il 70% attraverso quattro aziende quotate in borsa); il Cile, che nel 2005 conta di esportare il 75% dei suoi 7 milioni di ettolitri. L’Italia, insomma, resta il primo esportatore al mondo per quantità (18 milioni di ettolitri), il secondo per valore dietro la Francia (2.394 milioni di euro contro i 3.802 dei cugini). Ma per la prima volta le esportazioni, in valore, sono il calo (-3%).

La prende con filosofia Giuseppe Martelli, direttore generale di Assoenologi e presidente dell’Union Internationale des Oenologues. “Non sempre si può crescere – dice – Ogni tanto occorre anche fermarsi per consolidare le performances e rivedere le strategie. Fino a ieri era il produttore che indirizzava le scelte, oggi è sempre di più il mercato sul rapporto qualità prezzo per i vini di fascia media e qualità-prezzo-immagine per quelli di alto livello. Ma non facciamoci illusioni: è difficile pensare a un incremento sensibile dei consumi interni. Lo sviluppo lo si giocherà sui mercati internazionali, contro concorrenti sempre più aggressivi.

Il prezzo. Ecco la frontiera trascurata, a torto, negli anni dell’euforia, quando si moltiplicavano i convegni su vino e finanza assieme ai prodotti da collezione. Invece, stavolta, al Vinitaly si torna a parlare di prezzo. “Per un enologo come me commenta Pallanti, il culmine del lavoro coincide con la degustazione del vino. Invece, a un certo punto, l’attenzione si è concentrata sulla rarità della bottiglia, sulla confezione. Sulla moda, insomma, che per uno che fa il mio mestiere è quasi una bestemmia: un vigneto dura 40-50 anni, non ha nulla a che vedere con la moda”. E’ un piacere sentir scorrere il toscano tagliente di Pallanti, vignaiolo in Chianti che ha studiato nella cattedrali del gusto di Francia, da Bordeaux a Montpellier, da Nantes a Suze la Rousse. Ma non sarà che i prezzi sono cresciuti proprio per la mania di perfezione di enologhi come lui o di altri wine maker che vanno per la maggiore? “La realtà – replica lui – è che oggi la tecnologia consente di fare vino quasi dappertutto. Ma c’è vino e vino. C’è il terror, ovvero il vino coltivato nel suo terreno ideale, storico. E c’è il vino, dignitoso, che potrebbe essere offerto a un prezzo accettabile. Il problema, in questo caso, è una filiera distributiva irrazionale, spezzettata in troppo passaggi.

Distribuzione, produzione, marketing. L’Italia assieme alla Francia, scopre che la sua industria agricola di punta corre rischi inattesi, impensabili fino a ieri. “La Spagna – ammette Pallanti – è in grande crescita, anche perché la qualità è molto migliorata. Purché non commettano anche loro l’errore di alzare i prezzi”. Ma per fortuna, i piccoli-grandi Brambilla del vino non si rassegnano al declino. Anzi. Il mondo è pieno di consumatori che devono ancora scoprire le delizie di un Barolo d’annata. Consumatori dal portafoglio pieno e dal gusto da affinare: russi che si accontentano del vino di Moldavia o dello spumante di Georgia. Cinesi di Shangai, ai quali i sommelier di casa nostra sottoporranno, a fine novembre, l’abbinamento tra il rosso giusto e l’anatra imperiale oppure il bianco che si lega a un wan ton al vapore. Secondo le stime, sono almeno 100 milioni i cinesi che già oggi possono permettersi un buon bicchiere doc. Purché arriviamo per primi.

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