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Gambero Rosso

Editoriale - I vini ideologici ... Iosko Gravner, carismatico produttore di Oslavia, nel Collio goriziano, ha fatto venir giù di applausi la platea dello spettacolo "Wine Art" di Andrea Pezzi nello scorso Salone del Vino di Torino. Ci è riuscito sostenendo con grande passione il fatto che bisogna assolutamente credere nel territorio, addirittura nella terra e nella natura, e che tutte le tecniche enologiche “umane” hanno decisamente poca importanza. Ciò che conta è rispettare la natura e il proprio terroir. Una posizione affascinante, senza dubbio, con molti elementi sottoscrivibili dalla maggior parte dei buoni produttori, ma con una concezione di fondo che a me sembra percorsa da una visione ideologica e postromantica della viticoltura. Fa piacere sentir dire che il rispetto per la natura è fondamentale, ma è quanto meno problematico eliminare o tendere ad eliminare da questo ragionamento il ruolo e l’importanza decisiva dell’apporto umano.
Il professor Riberau-Gayon, docente di enologia all’Università di Bordeaux, amava sostenere che il prodotto naturale della fermentazione del mosto d’uva non è il vino, bensì l’aceto. Non solo, ma a ben vedere, se teniamo fermo il principio di assoluta naturalità, allora non solo le tecniche enologiche, ma la viticoltura stessa, che è attività del tutto umana e per nulla “naturale”, potrebbe essere messa in discussione.
Insomma, è un bel problema eliminare il ruolo del viticoltore, dell’enologo, di chi sa interpretare le possibilità che la natura ci dà, senza stravolgerla, ma avendo presente che il risultato finale non dovrà essere solo l’ideologica determinazione di un proceso, ma anche il risultato organolettico, il fattore edonistico, del vino che viene prodotto. E qui casca l’asino (absit iniuria verbis). Perché similmente a quanto accadeva un paio di decenni fa con le coltivazioni “biologiche” dell’epoca, che prevedevano frutta e verdura tristanzuola e con sapori non sempre così esaltanti (ora la musica è per fortuna ben diversa), il risultato di certe posizioni è quello di ottenere vini mediocri, talvolta di difficile comprensione, sacrificando la piacevolezza e l’eleganza dei caratteri organolettici sull’altare della cosiddetta “naturalità” del prodotto stesso. Si deve bere male, o comunque, il valore edonistico del vino non è al centro dei pensieri di questi produttori, perché è più importante la definizione di un processo filosofico che poi si traduce in una serie di scelte produttive. Ciò che sembra giusto deve anche necessariamente portare a ciò che è buono, insomma, con un salto logico che farebbe rivoltare nella tomba il buon Benedetto Croce. Perché se di visione filosofica e ideologica si tratta, allora bisogna anche conoscere i fondamentali per evitare di sostenere l’insostenibile e di non cadere in posizioni francamente ingenue. E questo, sia chiaro, vorrei che fosse inteso senza che venga messa in discussione la buona fede e l’assoluta onestà di un uomo come Iosko Gravner.

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