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I Viaggi Di Repubblica

Ora et labora in nome del vino ... Un’abbazia benedettina con 900 ettari coltivati a grano, farro, viti , ulivi. Qui, fino a pochi anni fa, lavoravano solo contadini. Ora le redini sono nelle mani di monaci che producono Rosso Toscano e Vermentino... Si incontrano strani contadini, sulle colline senesi. In certe ore della giornata, controllato l’orologio, si mettono a cantare. “Gloria in excelsis Deo…” Padre Giacomo Ferrari, 69 anni, economo della Congregazione benedettina olivetana, svela il segreto. “Per raccogliere i grappoli d’uva a settembre o per riempire i cesti di olive a novembre, si lavora tutti assieme: noi monaci benedettini e i braccianti. Bisogna approfittare delle belle giornate e della luce del sole: non sempre c’è il tempo di tornare in chiesa. La soluzione è semplice: preghiamo (e cantiamo) qui sui campi. “Ora et labora” per noi è sempre valido. Cinque ore di preghiera, cinque ore di lavoro. Dobbiamo guadagnarci il pane e il vino che arriveranno nel
nostro refettorio”. Torna alle origini, l’abbazia di Monte Oliveto maggiore, la casa madre dei benedettini olivetani. “Fino a pochi anni fa la nostra terra - novecento ettari, 400 dei quali seminati
a grano e farro, 500 con ulivi e boschi - era lavorata solo dai contadini. Ognuno con la sua casa, i suoi campi, il piccolo vigneto. Ora abbiamo cambiato tutto. Nel 2000 abbiamo impiantato un grande vigneto e, come un tempo, abbiamo deciso che il vino deve essere una delle risorse più importanti dell’abbazia. È stato così per secoli. Qui veniva lavorata l’uva dei monaci e anche quella dei contadini di queste colline. La nostra cantina è stata costruita nella seconda metà del ‘300. L’abbiamo riaperta, è diventata il simbolo delle nostre radici di monaci -lavoratori”.

Arrivano anche da Roma e da Torino, i nuovi pellegrini alla ricerca di un’oasi di pace e di preghiera e anche di una buona bottiglia di Rosso Toscano o di Vermentino. La cantina è sotto la prima chiesa dell’abbazia. Ci sono botti del ‘600 e del ‘700, alcune possono contenere più di cento quintali di vino. “Qui davanti alla chiesa arrivavano i carri dell’uva che, attraverso una botola, veniva fatta cadere nel vinaio. Quando il mosto diventava vino, un asino trainava le botti su in cantina. Il travaso
veniva fatto anche dai monaci, con barili da 25 litri portati in spalla”. L’antica cantina è diventata un museo. Si entra, si guardano le botti antiche con il simbolo dell’abbazia (tre monti sovrastati da una croce e da rami di ulivo) si assaggia il vino prodotto nella cantina “nuova” che ha già un secolo di vita. “Questa ripida scala - racconta padre Giacomo - serviva al monaco che spillava il vino dalla botte e poi lo portava nel refettorio. Questo era l’unico viaggio del nostro vino. Ora le nostre bottiglie vengono vendute anche all’estero e per questo ci servono nuove tecnologie per la vinificazione e anche l’aiuto di un esperto, l’enologo Attilio Pagli. I primi risultati sono incoraggianti. Abbiamo iniziato la produzione nel 2006 e con il Rosso Toscano Igt abbiamo già vinto un premio della Provincia di Siena”.

È importante, il vino, nella storia dei benedettini. Per capirlo, basta entrare nel Chiostro grande, dove Simone Signorelli e Antonio Bazzi detto il Sodoma fra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500 hanno illustrato la vita di San Benedetto, secondo il racconto di San Gregorio. Decine di affreschi raccontano, come in una moderna fiction televisiva, opere e insegnamenti del monaco fondatore. Oltre alle immagini, ci sono anche le didascalie. “Come Benedetto converte in serpe un fiasco di vino nascostogli da un garzone”. Un signorotto - questa la storia - manda due fiaschi di vino a Benedetto ma lungo la strada il servo ne nasconde uno per berselo poi in santa pace. Benedetto
ringrazia del dono ma avverte l’uomo: “Vedi però di non bere dal fiasco che nascondesti”. Il messo, allarmato, sulla via del ritorno stappa il fiasco ma da esso, invece del vino, esce un serpente. Insomma, sul vino non si scherza, anche perché pane e vino (e olio, quando non arrivavano le gelate) per secoli sono stati la dieta dei monaci. Un altro affresco racconta una regola valida ancora oggi. Benedetto rimprovera due monaci perché, durante un breve viaggio, hanno mangiato e bevuto in una casa privata. “La regola - dice padre Giacomo - ci impone di sfamarci o dissetarci solo nel nostro monastero o, se in viaggio, in un altro refettorio di monaci olivetani.

Io sono economo di tutta la congregazione e sono spesso in viaggio: ma anche per fermarmi in una pizzeria, devo avere il permesso e la benedizione dell’abate”. La “fiction” del ‘500 racconta anche le tentazioni dei monaci. “Come Fiorenzo manda male femmine al monastero”. Fiorenzo era un prete invidioso della santità di Benedetto, allora a Subbiaco. Per tentare i suoi monaci, manda sotto il monastero un gruppetto di ragazze discinte. Benedetto decide in fretta. Chiama i confratelli, annuncia la chiusura del monastero e assieme a loro parte per Montecassino, dove costruisce una nuova abbazia.

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