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Il Giornale

Zonin, Ca’ Vescovo e la guerra del Tocai: ad Acquileia le carte di un processo che dà torto agli ungheresi ... Impossibile confondere il Tocai friulano e il Tokaj ungherese. Il primo deve il nome a un preciso vitigno popolarissimo in Friuli, il secondo invece è un uvaggio di Furmint, Harsevilii e moscato giallo tipico di una regione vitivinicola posta alle pendici di monti che gli hanno conferito il nome. Non solo: quello friulano è bianco fresco, delicato e gradevole, con una gradazione, 11, 5°/12°, che può turbare solo un astemio; quello magiaro invece è un passito fortemente concentrato e zuccherino, dalla gradazione robusta, minimo 12°, di norma 15, per me splendido su pecorini di fossa o erborinati, magari alternandoli ai puff puff di un Toscano originale. M per quanto possano essere diversi, tanto hanno dormito quelle italiane, che dal 2007 noi italiani non possiamo più chiamare Tocai il Tocai. Da due o tre anni a Roma, Udine e tocai-dintorni si sono date molto da fare ma per quanto belle possano essere, le parole hanno un peso e i fatti un altro. E i fatti finora danno ragione alla controparte.
I produttori friulani si stanno dannando per dimostrare che il Tocai è nato secoli e secoli fa da loro e poi passato, donato, presentato agli ungheresi. L’ultima testimonianza l’ha portata Gianni Zonin. Il cavalier-banchiere di Gambellara (Vicenza) è proprietario di Ca’Vescovo a Terzo d’Aquileia. A lui la parola: “Attorno al 1100 il Patriarca Popone fondò a Terzo d’Aquileia un monastero di suore benedettine, istituzione che visse vita serena fino al 1760 quando i suoi destini incrociarono la passione per l’agricoltura dell’imperatore Giuseppe II, detto lo Scaccino. Costui mal sopportava chi non curava i campi ma aveva rispetto per le persone, non metteva fretta, non ordinava con il pugno di ferro, almeno all’inizio invitava. Così un bel brutto giorno chiese al monastero di provvedere alla bonifica dei terreni e alla messa a coltura delle aree incolte. La madre badessa però rispose picche: nonn aveva i fondi per farlo. Passò poco tempo, e l’imperatore sollecitò il convento a provvedere almeno alla costruzione a attivazione di una scuola per i figli degli agricoltori della zona. Anche in questo caso, la superiora disse che aveva le casse vuote e che quindi non poteva provvedere. Lo Scaccino prese nota e fece finta di lasciar cadere la questione. Invece aspettò solo l’arrivo dell’estate quando la maggioranza delle suore, tutte figlie di nobile veneziane, si trasferiva in un monastero più fresco perché in quota sulle colline di Cividale del Friuli. Ad Aquileia rimaneva solo uno sparuto gruppetto di sorelle di nobiltà austriaca, troppo lontane per poter rientrare a Vienna. Era il momento propizio per intervenire. Giuseppe II emise un decreto imperiale di esproprio di convento e terre, con messa all’asta di ogni bene, asta vinta dal principe austriaco Antonio Erbestein, anche vescovo di Trieste. Come prima cosa bonificò l’area e come seconda la mise a coltura. Gli abitanti presero a chiamarla Ca’ del Vescovo”.
E la querelle del Tocai? Ci siamo. Sempre Zonin:”A inizio ‘800 la proprietà passò al barone Economo di Trieste che riportò a Ca’Vescovo la vite, in particolare Refosco e Tocai. Quest’ultimo ebbe tale successo, che nel 1956 la Monimpex, società ungherese per il commercio estero, contestò l’uso della denominazione Tokaj da parte della famiglia Economo, accusata di violazione delle norme che tutelano i nome di origine dei prodotti nonché di concorrenza sleale. Io, entrato a Ca’Vescovo una ventina di anni fa, ho trovato le carte di quel processo, davvero interessanti. La causa durò sei anni e approdò alla cassazione. Nella sentenza emessa nell’aprile ’62 si parla di “uso contemporaneo, pacifico e indisturbato da secoli delle due denominazioni, Tokaj in Ungheria per il vino dolce da dessert e Tokaj in Italia per il vino secco da pasto”, erano insomma meri marchi di fatto. La cassazione rigettò il ricorso ungherese confermando una prima sentenza del tribunale triestino. Basterà a salvare il Tocaifriulano ?

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