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Il Giornale

Il vero nemico
del mangiar bene?
È l’ideologia
nutrizionista ... Michael Pollan è un professore di
giornalismo scientifico e ambientale all’Università
di Berkeley
in California. Cinquantaquattrenne,
scrive per il magazine del New
York Times e, soprattutto, è l’autore di due
libri che hanno inciso sul dibattito attorno
all’alimentazione contemporanea, entrambi
editi in Italia da Adelphi. L’anno scorso fu
la volta del Dilemma dell’onnivoro, e adesso
di In difesa del cibo che ne rappresenta la
naturale, inevitabile continuazione. E se il
primo ha fatto incetta di premi, il secondo si
pavoneggia del James Beard Award, il Pulitzer
della gastronomia.
Lo ricordo perché nelle due fatiche di Pollan
c’è ben poca arte culinaria, scarsa indulgenza
per la tavola intesa come terreno di
scontro tra chef e critico, luogo di affari e di
seduzione, anche di solitudine e rabbia. Ciò
non toglie che tutto parte e torna allo stesso
punto: il piacere del cibo.
Pollan non percorre il “pianeta cibo” mosso
dal desiderio di carpire ogni segreto di
ogni ricetta eseguita sulla terra e nemmeno
dalla voglia di stabilire qual è il cuoco più
bravo al mondo. Come l’intento del Dilemma dell’onnivoro
non era quello di cogliere
i confini dell’appetito alle prese con carne e
pesce, carboidrati e proteine, frutta e verdura,
così con la Difesa del cibo lo studioso parte all’attacco
dei nuovi sacerdoti che dettano
le leggi della nostra alimentazione quotidiana.
E se non hai letto il primo, il secondo
perde di spessore. Dopo 436 pagine, altre
duecento per rispondere a una domanda
che l’autore si è sentito porgere da tanti: “Ma
io, cosa devo mangiare?”. Sottinteso di buono
e genuino.
Pollan aveva messo a nudo vizi, limiti, peccati
e magagne di tre ben precisi modelli alimentari:
catena industriale, catena pastorale
(il mondo bio) e catena personale, ovvero
il bosco. Il primo su tutto e tutti, ma anche il
bio che ha leggi molto generose, con reti di
protezione che a volte hanno maglie troppo
larghe per arrivare al mito americano dell’uomo
che si nutre, faticando, di quello che
caccia e che raccoglie, una poesia più che
qualcosa di importante economicamente su
vasta scala.
In difesa del cibo mette sotto accusa una
figura sconosciuta ai più fino a pochi lustri
fa: il nutrizionista. In certi ambienti industriali
e amministrativi ha sostituito il medico e lo chef.
Il primo evoca ambienti ospedalieri
che mal si abbinano con la tavola, il secondo è di
impiccio perché fedele a un passato
che i nutrizionisti combattono.
Pollan ci ricorda come una volta la tavola
era il punto attorno al quale si riuniva una
famiglia per mangiare, parlare, confrontarsi,
gioire,anche arrabbiarsi, in una sola parola:
vivere. Oggi quella che era una leccornia,
viene scissa nei suoi componenti nutrizionali e passa
l’idea che per nutrirsi servono tot di
questo o quel fattore, insomma, pillole e
non piatti. Stare bene non è più sinonimo di
essere stati bene a tavola e, idealmente, la
spesa la fai in una simil-farmacia. Tutto diventa
una dieta e poco importa agli esperti
se quello che era proibito l’anno prima viene
all’improvviso riabilitato. Le novità sono
fittizie, quasi decise dal marketing, non seguono
più il gusto e la curiosità dello chef o
della mamma. E il cibo non è più gioia.

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