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Il Messaggero

L’export cala e il mercato italiano è freddo anche perché al ristorante, talvolta, le bottiglie costano più del menù ... Il tema del convegno clou di oggi, tra i tanti pur di appeal, è : «Caro, carissimo vino». E parla da solo. E’ simbolo e riassunto del clima che si respira qui a Torino, terzo Salone di settore firmato da Alfredo Cazzola. Un clima che non rinnega certo i risultati strepitosi colti e le speranze che si appuntano sul comparto trainante dell’agroalimentare. Ma che quest’anno, per la prima volta da un tot, confessa apertamente il bisogno di una pausa di riflessione. Che il mercato, specie quello interno, sta d’altro canto già imponendo. Dove è arrivato, insomma, il vino italiano, meno di due decenni fa ancora nelle brume di un’immagine cheap (salvo illustri eccezioni) e nel cono d’ombra dello scandalo del metanolo? Ecco i numeri. Giro d’affari: 8 miliardi. Valore dell’hardware, vigne e strutture, 50 miliardi (è cifra approssimata e che vela, nella medietà statistica, differenze abissali). Oltre 53 milioni di hl sfornati - 20 di vino da tavola - da 800.000 produttori. C’è vite su 675.000 ettari, metà del 1980, ma di qualità e valore più che decuplicati. E, soprattutto, c’è il titolo di primo esportatore al mondo, 15,6 milioni di hl nel 2001, per 2,6 miliardi, 16,8 per 100 dell’intero export agroalimentare. Un trionfo? Non esattamente. Chi ricorda che è quando si sale che ci si fa più male cadendo e ha sott’occhio le prime cifre ufficiali 2002 (aumento in valore all’export, ma frenata di crescita in volume) paventa già quelle 2003, che non saranno buone. E soprattutto teme la metamorfosi del mercato interno: che, presunto ”refugium peccatorum” per bottiglie di culto, una volta lesinate ai connazionali e ora stornate in corsa da mercati assai più ostici che in passato, come Germania e Usa, pare invece assolutamente restio a mantenere (in questo come in altri settori di consumo) il ruolo di ”spender facile”. Ecco allora l’allarme. E il dito finalmente puntato su quanto già da tre anni si va, da alcune sponde, dicendo: vincente, buonissimo, il vino italiano però ora costa troppo. Travolto da improvviso benessere, ha perso feeling col mercato. A riprova, parla già la piramide produzione-consumo, per cui un vino da 3 euro al produttore, va a 4-5 in enoteca e 10-11 al ristorante. Ma quel che si ha meno voglia di dire è che a patire di più non sono i (pur già ricaricati al 250 per 100) vini di questa fascia. Ma i troppi da 15 euro in cantina, cioè 25 in enoteca, che obbligano i ristoratori, con i magazzini pieni (su cui pagano tasse, benchè sia un capitale fermo) a scegliere se imporre ai clienti prezzi per bottiglia superiori a quelli di un menu o a tagliare - come vari fanno - gli ordini. E non aiuta la distribuzione, il fattore più obsoleto nel nuovo universo vino. Si ordina una-due volte l’anno, sulla spinta di fiere e recensioni. La quantità va decisa (e pagata) tutta insieme. Inutile sognare, senza altri forti aggravi, un meccanismo che non obbliga a stoccaggi, costosi anche nella gestione (serbare bene i vini chiede strutture ad hoc e bei danari). E allora? Ironizza Franco Ricci, leader carismatico dei sommelier, rivoluzionatore dell’immagine della categoria e motore di guida (Duemilavini) e magazine da essi redatti: «Consiglio ai pruduttori di dimezzare i prezzi nelle annate cattive. E smettere di proporre Novelli a 9 euro. Anche per evitare l’orrore di vedere quelli del 2002, e ho prove fotografiche, offerti a saldo, 2,5 euro al pezzo, in ipermercato. S’è fatta tanta strada, e di corsa. Ma prima di entrare in curva, specie se vai veloce, servono anche buoni freni».

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