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Il Messaggero

In alto i calici - Brindando ai sentimenti ... Si debutta con un espresso triplo e croissant agli spinaci “take away”, si va avanti con uno champagne ’92 “solo di pinot nero” trincato caldo in macchina come una birretta o una soda, si culmina con un St. Emilion Chateau Cheval Blanc 1961 sgargarozzato in un bicchieraccio di carta a fianco di dimenticabili robe fritte molto “fast”, in una cornice degna delle peggiori solitudini, dei più abissali squallori metropolitani usciti dal pennello di Edward Hopper. Così finisce l’illusione del protagonista, che stappa la sua bottiglia del sogno (per inciso, un 93/100 di Parker) in una assenza di bello tutta trash, degna di Sparvieri nella notte, l’impietoso esercizio di anatomico realismo hopperiano all’Art Institute di Chicago sull’America delle desolazioni rese ancora più crude dai neon da motel. La riflessione sul celebrato Sideways - In viaggio con Jack , il film di Alexander Payne candidato a cinque premi Oscar non può essere evidentemente ridotta agli stretti binari di una semplificata lettura gastronomica. Altrimenti, davanti all’esplosione di potenza di un Opus One, muscolare Napa Cabernet, associato con voluttà da uno dei protagonisti a salmone e carciofi, ci sarebbe da chiudere bottega e invitare tutti alle troppo spesso dimenticate virtù delle acque minerali. “Una commedia sulle due cose più importanti della vita”, strillano le locandine. Ed è sicuramente vero, perché il nesso tra Eros e Dioniso è formidabile. Persino nei disordinati scenari post-moderni delle “wineries” californiane, con i gadget, i pullman di turisti implotonati a degustare e visitare cantine, e tutto il caravanserraglio di armamentari da vino che oggi “fanno molto intenditore”. Così, stridono sul comodino degli anonimi motel dove sostano Miles e Jack, i due protagonisti, bicchieri da relais gourmet e bottiglie da meditare in ovattate eleganze. Insomma, del folklore del vino c’è davvero tutto. L’ispirato sussiego del degustare, il piacere di citare termini da cantiniere “fa dodici mesi in legno”, oppure il desolante “sospetto di asparagi e di formaggio olandese” (buon Dio!) , tutto il gran roteare calici professionali, sprofondare il naso, dilatare le narici rimanda a un amore sapiente del suo oggetto. Ma è solo il mondo del vino nel suo folklore di nomi e di liturgie, in un continuo sfiorare la verità dell’alcol nella sua espressione sublime, senza però mai aprirne veramente una porta. Per non parlare dell’enopsicologia, nuova categoria da conversazione post-moderna introdotta dal film. Col rischio che, insieme al segno zodiacale, si affermi la pretesa di categorizzare i caratteri in tipologie di vino/vitigno (dal tipo Cabernet al tipo Sauvignon... con la fortuna che l’italico Cacchione, recente doc di Nettuno, non è ancora stato scoperto dai mercati e dall’enopsicologia internazionale!). Ma il fascino del film è un altro. Ed è nella sua capacità di farci vedere quanto, grazie alla passione per il vino, si siano creati nuovi alfabeti, strumenti alternativi del comunicare, percorsi impensati dove far scorrere la passione, il piacere, nevrosi comprese. Miles, il protagonista, racconta il suo amore per il Pinot nero, e la descrizione del vino è uno straordinario squarcio psicoanalitico sui suoi vissuti interiori e sulle faticose sistole e diastole di un’anima che si contorce. Va bene allora il petting tra le barriques, e vanno bene le descrizioni emozionate di un Richebourg grandissimo di Bourgogne per raccontare stati d’animo, per raccontare di sé, per lanciare un ponte, per creare una lingua comune dove far scivolare la passione amorosa. Da italiani, non può che lusingarci che la seducente Maya abbia trovato la sua via di Damasco dopo un Sassicaia ’78. Quanto al vino raccontato in Sideways , guai a prenderlo troppo enologicamente sul serio, fuori dalla sua fascinosa cornice di affresco su una delle tante Americhe emergenti. Altrimenti verrebbe da dire “aridatece i Martini cocktail della vecchia Hollywood”.

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