02-Planeta_manchette_175x100
Allegrini 2024

Il Sole 24 Ore / Il

Diamoci un taglio ... Verdi spalliere - Vecchia sapienza per giovani coltivatori... Per far vivere a lungo i nostri vigneti occorre saperli potare. Un’arte dimenticata a causa della coltivazione intensiva. Ma che ora si comincia a riscoprire, in Trentino. Lì dove “una vite è come una vacca: non puoi permetterti di perderla”... Non è un Paese per viti vecchie, il nostro. Vale lo stesso per tutti quelli che hanno adottato la coltivazione intensiva dell’uva (il 90 per cento). Riducendo gli spazi tra le piante, i vigneti a spalliera hanno sostituito le forme della tradizione - la pergola del Nord Italia e l’alberello del Sud - e hanno reso possibile la lavorazione meccanizzata. Con un piccolo contraccolpo: hanno dimezzato la vita media delle vigne rispetto al passato. Peccato. Sembra che la vite vecchia produca un vino migliore. Senza contare che caratterizza un paesaggio ed è presidio Doc di biodiversità. C’è tuttavia qualcuno che vuole restituire alle viti la vecchiaia perduta recuperando il segreto della loro longevità: la potatura. Si tratta di Marco Simonit, un preparatore d’uva originario del Collio: “Ogni anno asportiamo l’80 per cento del legno che produce una singola pianta. La vite è molto vigorosa: cresce anche 7-8 centimetri al giorno. La potatura è una mutilazione. E più ampie sono le ferite, più si riduce la capacità di cicatrizzazione”.

Nonni con le forbici. Continua Simonit: “La potatura “industriale”, fatta attraverso forbici elettriche, agisce su legno vecchio, togliendo di mezzo i grossi rami per mantenere la vite nello spazio predestinato. Ma il taglio diventa la porta da cui entrano parassiti o funghi. E la vite, indebolita, vive meno: 25 anni, ci insegnavano all’università. Si pensava fosse un male necessario, compensato dalla maggiore produttività dei vigneti. Così abbiamo dimenticato il motivo per cui i nostri nonni potavano muniti di sole forbici e coltelli uncinati”. Simonit va a prendere le sezioni di
vecchie viti passate attraverso la sega a nastro che tiene sempre in macchina. Sono autopsie che svelano lo stato di salute della pianta. E le responsabilità della potatura: a partire dalle piaghe più grandi si sviluppano coni di legno secco o spugnoso. È la parte malata della pianta, invisibile all’esterno ma letale. Nel 1988, recuperando il sapere della tradizione, Marco Simonit e il socio Pierpaolo Sirch - coinvolgendo l’allora direttore dell’Istituto agrario di San Michele all’Adige e Laura Mugnai dell’Università di Firenze - cominciano a sperimentare un metodo di potatura soffice che preservi la salute e l’equilibrio della vite: interventi sul legno giovane di massimo tre anni, ferite piccole e spazio all’esuberanza della pianta. Senza tuttavia rinunciare alla forma della spalliera. Il metodo funziona, alcune grandi cantine cominciano ad accorgersene: i vigneti sottoposti all’esperimento erano sani, “splendidi”, ricorda Andrea Faustini, della cooperativa trentina Cavit che ha iniziato oramai da qualche anno a proporre il modello di potatura ai suoi associati. Un metodo che valorizza al massimo ciascuna pianta non può non interessare un’azienda che riunisce 11 cantine (il 65 per cento della produzione vinicola trentina) e 4.500 viticoltori, ognuno con un podere di circa un ettaro, situato in un territorio valligiano e montano: più facile che passi alla potatura soffice un viticoltore montano con le sue poche piante che uno abituato ai grandi appezzamenti di pianura e alla velocità della meccanizzazione. Fabrizio Marinconz è l’agronomo di Cavit che ha seguito l’introduzione della potatura soffice, nel 2006: “Qui in Trentino una vite è come una vacca. Non puoi permetterti di perderla”. È proprio per questo che, tra i piccoli proprietari, il modello ha cominciato ad acquistare successo. Continua Marinconz: “Nel primo anno, il lavoro di potatura aumenta del 20-30 per cento: bisogna imparare. Negli anni successivi però, una volta impostata la vigna, diminuisce del 20-30 per cento rispetto a come si operava prima”. Si facciano i calcoli tenendo presente che ci vogliono 70-80 ore di potatura all’anno per ettaro; che molti piccoli viticoltori fanno un altro lavoro; che in questo modo le piante vivono fino a cinquant’anni. La potatura soffice sembra offrire vantaggi, perlopiù. “Non all’inizio - assicura Simonit - quando eravamo un esperimento su cui nessuno investiva. Il coinvolgimento di cantine come Cavit o Ferrari, con i loro primi vigneti didattici, ci ha dato massa critica. Oggi in Italia ci sono 4.500 ettari di vigne gestite in questo modo. E 1.600 potatori”.

Scuola per tutti. Simonit e Sirch, insieme alla loro squadra di tecnici di base a Corno di Rosazzo (Udine), hanno fondato anche la prima scuola di potatura italiana. Sono lezioni per viticoltori o cultori della materia (“Sempre più gente vuole cimentarsi con la viticoltura-giardinaggio”): 20 ore nel periodo invernale per la potatura a secco, tra gennaio e febbraio, e 12 per quella verde, quando in primavera-estate si elimina la vegetazione in eccesso. Come sta andando? “Nel 2009 - risponde Simonit - abbiamo tenuto i corsi in due sedi, nel 2010 in sette. La scuola dà dignità al lavoro del potatore: non possiamo affidarci ancora a dilettanti che tagliano senza sapere”.
Un soffio palustre sale dal lago di Toblino, ai piedi del cinquecentesco Maso Toresella, dove Cavit ha un vigneto sperimentale: un laboratorio di traminer, pinot, marzemini. Sono lontani i tempi in cui un’epidemia di fillossera colpì l’Austria a fine Ottocento e costrinse i viticoltori a innestare le piante su un piede di vite americana resistente all’insetto nocivo. Certo troppo lontani anche per le piante più vecchie.

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024

Pubblicato su