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Il Sole 24 Ore

Commenti e inchieste - Intervista a Daniele Cernilli: “Il vino si ama: una bottiglia è un flacone di territorio” ... Insieme ai suoi compagni di commissione, ne assaggiano 25.000 l’anno: “Io da solo – calcola- almeno 5.000”. A vederlo, e a parlargli, non si direbbe: gran barba, pochi chili di sovrappeso, ha eloquio sobrio, asciutto, poco barricato; diffida delle impressioni, dei voli nelle sensazioni e nelle fantasie, cerca piuttosto categorie e ordine e una rete di connessioni rispetto alle quali confrontare la qualità di ogni singola bottiglia. Romano,48 anni, una vecchia Golf scalcinata di cui peraltro è molto orgoglioso, Cernilli è arrivato allo spirito del vino partendo da luoghi più rarefatti, più austeri, dove lo Spirito si associa alla filosofia. L’essere, del resto – avrebbe detto il molto citato da noi Platone – si manifesta in molti modi. Ha studiato da filosofo, con una tesi sul problema della conoscenza nell’idealismo italiano.
“L’ultima discussa da Guido Calogero prima di andare in pensione – racconta-; Poi ho fatto l’insegnante di lettere, scuola media, Ariccia. Ma già mi interessavano le scelte della cantina del Cul de Sac, il primo wine bar di Roma, del quale si festeggia in questi giorni il Giubileo. Il prmo bicchiere me lo aveva messo in mano mio nonno Erminio Spalla, gran pugile, campione dei pesi massimi, il padre di mia madre: un ormone allegro e vitale, nell’ultima guerra andò volontario tra i paracadutisti e aveva già più di quarant’anni primo sottoufficiale agli ordini di Gianni Brera, gran giornalista e grandissimo praticante dell’arte del bere. Ho imparato molto da Gino Veronelli, anche lui uno che viene dagli studi di filosofia, un maestro e un uomo generoso. Ma cominciare ad occuparsi di vino e innamorarsene è stato tutt’uno. C’è gente magnifica, i luoghi sono spesso di una bellezza stupefacente, ti riaccosti alle tradizioni della terra: una bottiglia è un flacone di territorio”.
“C’è un’idea corrente a proposito di assaggi, ed è che si tratti di raccontare emozioni. La penso in modo diverso: il buon assaggiatore è soprattutto uno che ha imparato a distinguere. E’ una questione di metodo, di disciplina del gusto: ci vuole concentrazione, bisogna stare attenti. Forse è per questo che i giapponesi sono tra i migliori. C’è una tecnica, c’è una grammatica. Ogni tipo di uva ha uno spettro di sapori, una cifra di odori, il Pinot nero sa di fragola, il sangiovese di amarena, il nebbiolo di liquerizia. Così, ogni vino va collocato nel suo contesto, all’interno di un modello ideale: la gran qualità si misura nella capacità di esaltarne tutti i margini, di superare i vincoli, di introdurre novità che siano coerenti e non stravaganti trovate. L’assaggio, dunque, è tecnica e metodo. E ha poco a che vedere col funambolismo degli indovini. Chi indovina è un prestigiatore: mi vengono in mente gli Harlem Globetrotters, nella pallacanestro sanno tutti i trucchi, conoscono i numeri stupefacenti: i Lakers di Los Angeles magari non fanno cesto dopo un salto mortale, ma sono grandi, soliti atleti: in campo, non ci sarebbe partita”.
“Con Giorgio Pinchiorri, uno dei monumenti della ristorazione italiana, a volte facciamo un gioco: lui mette sul tavolo una bottiglia senza etichette, io assaggio, ho a disposizione tre jolly, cioè tre domande, poi do il mio responso: se ci prendo, vinco la bottiglia, se sbaglio la pago, e sono conti salati. Capita spesso che indovini, ma non so se sarei capace senza il supplemento di informazioni. Si possono anche organizzare tornei, gare di assaggio coperto, incontri testa a testa, a eliminazione diretta: lo abbiamo fatto, Vinbledon, vinse un italiano e un giapponese arrivò secondo”.
“Per il vino italiano sono stati anni buoni, in fondo non è passato molto tempo da quando toccammo il punto più basso, la crisi di inquinamento da metanolo. Nel frattempo, è successo una rivoluzione, è entrata nel mercato gente nuova, sono arrivati capitali freschi, c’è stata un’esplosione della qualità. E anche, purtroppo, dei prezzi, le grandi bottiglie sono romai fuori della portata di chi non sia ricco o non abbia voglia di fare un mutuo per comprarle. Ma c’è una vera e propria moltiplicazione di wine bar, e anche tra i giovani cresce il numero di quelli che cominciano a preferire un buon bicchiere alla birra”.
“Anche nel vino, c’è il marchio di fabbrica della nostra storia, cento città, mille campanili, non c’è Paese al mondo che abbia questa varietà. E’ una ricchiezza rispetto agli altri, che sono più standardizzati: e tanti bravi enologi sono al lavoro per eliminare dai dialetti le ingenuità dei localismi e delle proposte fai-da-te. In più, sono vini duttili, si adattano bene un po’ a tutte le cucine e i bianchi in particolare a quella giapponese che va di moda. Non sorprende perciò che abbiano successo nel mondo”.
“Se non ci fosse quest’acqua dannata, piove, piove sui nostri vigneti ignudi: e senza che nessuno abbia dato, anche di questo, la colpa a Berlusconi. Quasi quasi, organizzo un girotondo”.

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