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Il Sole 24 Ore

Niente vino, per favore, sto mangiando ... Chi lo ha definito «divino», chi invece con rispetto lo chiama «maestro». C'è chi lo ama da sempre, chi invece non coglie occasione per criticarlo. Comunque sia le sue opinioni riescono sempre a provocare un dibattito. Le sue idee, a volte discutibili assai, hanno sempre un pregio: sono frutto di riflessione, di ragionamenti che mostrano come uno chef possa interpretare il momento, la società, i gusti. Ne è un esempio recente la difesa dei prodotti gastronomici di qualità dell'industria, mentre tutto e tutti (compreso chi scrive) sostengono incondizionatamente l'artigianato e criticano i prodotti standardizzati. Ancor di più ha lasciato di stucco dichiarando che un grande piatto per essere apprezzato vada abbinato a un bicchier d'acqua. Si tratta di Gualtiero Marchesi, oggi patron dell'Albereta di Erbusco, della Hostaria dell'Orso di Roma e del ristorante del Jolly di Parigi. L'accostamento cibo-acqua, guarda caso, giunge quando il vino è diventato un cult, oggetto di interesse collettivo, soggetto di approfondimendo. Non a caso attualmente al vino viene abbinato di tutto: cioccolato, gelato, frutta e quant'altro possa provenire dall'universo della cucina. Perché Marchesi è uscito con questa tesi? Innanzitutto, in cuor suo, forse la pensa in questo modo: il cibo, la pietanza deve essere protagonista, perché questo è il ruolo «santificante» dello chef. Quando si assaggia un «capolavoro» non si può essere distratti da altri protagonisti (quali il vino), ma solo da comprimari che non disturbino la sensorialità, impegnata nel giudizio finale. Poche settimane fa, Ferran Adrià (El Bulli), lo straordinario chef spagnolo, durante una profonda&intrigante lezione sulla creatività a Fabrica (il centro creativo Benetton) mi ha confidato che anche lui ritiene che un piatto, il cui contenuto di ricerca e creatività sia alto, dovrebbe venir gustato in solitudine per carpirne al meglio le sfumature. Nonostante sia su posizioni diverse, Max Alajmo, il più giovane chef tre stelle d'Europa, dice di non pensare all'abbinamento piatto-vino mentre crea, ma poi nell'assaggio è aperto addirittura a più liquidi, non solo ai rossi e ai bianchi. Sono in pochi sulle posizioni marchesiane, forse nessuno… Critici sono specialmente quei ristoratori che in questi anni hanno costruito importanti carte dei vini, cantine eccellenti, quali Gianfranco Bolognesi (Frasca di Castrocaro), che risponde con la citazione di Alain Senderens (3 stelle parigino) «se non c'è il vino sul tavolo, il piatto non conta molto». E annuncia la sua nuova iniziativa: da gennaio il menu della Frasca avrà vicino a ogni piatto la proposta di un vino a calice. Insomma il nostro Marchesi «liberal» della cucina ha gettato un sasso pesante in piccionaia. Perché lo ha fatto? Non certo perché, come lui sostiene sul suo bianco di branzino, così come sulla zuppa sempre di branzino, perché la gentilezza del piatto non richiede vini, anche se aggiunge di saper benissimo che questi non mancano. La verità è che il Maestro (lo è a tutti gli effetti: dalla sua scuola sono usciti alcuni tra i migliori chef in circolazione) ha capito che siamo nell'era del vino, dove l'etichetta fa aggio sul piatto, mandando a rotoli qualsiasi regola di abbinamento. Rossi, bianchi, bollicine guidano il boom del cibo, portando alla ribalta vignaioli, produttori, wine maker, assaggiatori. Il nostro Marchesi non ci sta, vuole lo chef al centro dello spettacolo-cena. Siccome è uno dei pochi che pensano... gioca la carta dell'acqua per ricacciare l'etichetta nel ruolo di Cenerentola prima parte. Io non condivido (anzi: sono per l'accostamento cibo-vino libero, soggettivo, emotivo contro ogni geometria organolettica, e voto per un vino a tutto pasto) ma mi tolgo il cappello di fronte al Cartesio della cucina (cogito ergo sum). Sine qua non.

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