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Il Sole 24 Ore

Se del cuoco val più la parola del piatto ... «La cosa che mi lascia perplessa è che i ristoranti badino ora più ai vini che ai piatti. Malattia dettata dall'informazione?». Così mi scrive una lettrice, la quale "saggia" e qualche volta mi segnala con competenza e passione locali e ristoranti in tutta Italia. Non c'è dubbio che l'attuale boom del cibo sia trainato dal vino e dai prodotti del territorio, piuttosto che dai piatti. Lo mostra innanzitutto la sempre crescente domanda di appassionati di corsi di degustazione, lo conferma in maniera ancora più eclatante la ricerca realizzata dall'Osservatorio del Salone del Vino di Torino, dove emerge addirittura una nuova figura: il trainer wine. L'amante del vino diventa un nuovo canale commerciale perché, con l'acquisita competenza (viene spesso confusa con cultura...), influenza i gusti a tavola e gli acquisti degli amici. Il successo di bianchi, rossi e bollicine è coronato soprattutto dal recente interesse delle donne, sempre più motivate ad approfondire la cultura del vino rispetto all'elaborazione di ricette. Sembra essere in atto un ribaltamento dei ruoli tradizionali della società italiana: il maschio ad apprendere l'arte dei fornelli, in passato ritenuta una debolezza, la donna attratta dai sapori e dai profumi provocati dalle uve. Il piatto in quanto frutto di ricette e di ingredienti non è più al centro dell'attenzione, lo sono soprattutto gli chef e gli ingredienti. Oggi il cuoco, anche se non ancora paragonabile ai calciatori e alle letterine, è uomo spettacolo. Sono più discussi gli interventi degli chef in televisione o in convegni rispetto ai loro menu. È il locale con il cuoco ad attrarre, non le sue portate, a meno che non siano "riformiste" o "destrutturate". A far notizia sono gli ingredienti che usa: una carne riscoperta (la cinta senese per esempio), il formaggio o la farina di un mini produttore, il pane di una farina particolare, l'olio extra vergine con bottiglie numerate, l'aceto balsamico tradizionale extra vecchio, la forma di grana stagionata. Non di meno sono al centro dell'interesse le forme aerodinamiche da galleria del vento dei piatti, le tovaglie, il carrello dei formaggi, la carta delle acque minerali (a quando quella delle carte igieniche?), l'abbigliamento da cucina stile California. Il contenuto, insomma, di un pranzo o di una cena passa in seconda battuta. Chi è attento osservatore al ristorante, può notare come il dialogo sulla scelta del vino con il patron o il sommelier o il cameriere sia molto più lungo rispetto alla decisione di un primo piatto o di un dolce. Che tutto ciò sia colpa dell'informazione? (come dire: piove, governo ladro...). Forse il vino, negli ultimi anni, ha goduto di maggiore attenzione, come mostrano le tante nuove riviste. Probabilmente le guide dei vini, nate dopo quelle dei ristoranti, hanno giocato un ruolo importante. Però, come dice sempre l'assessore di Roncofritto a Zelig, fatti non... è molto più facile mettere a punto una carta dei vini da far colpo piuttosto che offrire un grande menu. Nel primo caso è sufficiente "fotocopiare" altre carte dei vini con contenuti di ricerca e acquistare magari due bottiglie nell'enoteca d'angolo, mentre la qualità di una cucina ha bisogno di una grande manualità e di una ricerca vera degli ingredienti. Probabilmente anche l'informazione, in questi anni recenti, nel giudicare un locale ha dato un valore maggiore alle carta dei vini rispetto al passato. Ma giustamente: certo sarebbe sempre auspicabile che tra piatti e vino ci fossero critiche "separate", ma è chiaro che la carta dei vini è una componente determinante del livello di un locale, chi non la considera tale emette un verdetto monco. Sine qua non. (arretrato de "Il Sole 24 Ore" del 21 settembre 2003)

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