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Il Sole 24 Ore

Alla ricerca di un piacere divino ... Gli eroi omerici amavano i banchetti in cui scorreva tanto vino: gli eccessi in questa bevanda, come pure nel mangiare carne o nell'amare corpi femminili (e maschili), confinati com'erano in particolari ricorrenze, erano un riflesso del loro kratos, di quel potere ottenuto attraverso la forza e il coraggio dimostrati in guerra o nelle razzie compiute ai danni di altri signori di quel mondo arcaico. Con l'avvento della polis e le sue regole, anche l'eccesso nel vino risulta improprio, molesto, destabilizzante per l'individuo e la collettività e come tale punibile. Ma una polis organizzata solo nel segno della ragione, della legge e del controllo (pur con tutte le ingiustizie e la violenza che sancivano), non poteva certo esaurire l'espressione della natura dell'uomo. Il rapporto tra la componente razionale e quella irrazionale dell'anima umana andava rivisto, composto e spiegato. I sofisti riuscirono a dimostrare l'insopprimibilità della nostra componente irrazionale ed Euripide nelle sue Baccanti celebra in Dioniso, con la sua musica e il vino che si accompagna ai suoi riti orgiastici, il liberatore dell'umanità, colui che dischiude in noi la nostra componente "divina", che ci fa più forti delle norme, dei divieti, dei controlli. Platone vede nel vino il mezzo che ci permette di dipanare i nostri ragionamenti sulla via della verità: nel Simposio sono Socrate e i suoi compagni a scoprire attraverso la parola e un uso generoso di questa bevanda la vera natura dell'amore, il suo statuto di "idea" e il proprio rapporto con il Bene supremo. Si è soliti dire, e non a torto, che con Platone ogni grande questione che riguardi l'uomo era già stata affrontata, che la storia del pensiero occidentale successiva non è stata altro che una ripresa, per quanto salutare, delle sue tesi o di tesi opposte. Questa semplificazione vale anche per il rapporto tra vino e pensiero umano, come ci mostra Massimo Donà nel suo saggio Filosofia del vino, appena pubblicato da Bompiani. Aristotele, soprattutto interessato all'aspetto pratico dei problemi, predicava un uso moderato del vino, come del resto di tutti gli altri piaceri terreni, poiché la felicità consisteva nella via mediana tra virtù e vizio. Stoici ed epicurei prepareranno invece il terreno per l'ascetismo dei primi cristiani: per gli stoici, il vino, la crapula e tutto quello che le si accompagna sono un impedimento alla nostra identificazione con la ragione divina che ci guida; quanto agli epicurei, quello del vino (come quello dell'amore), rientra nei desideri naturali ma non necessari, per cui chi vede nel piacere unicamente l'assenza del dolore può farne a meno. Il vino, in quanto assimilabile al sangue di Cristo, torna a essere sostanza divina con Tomaso d'Aquino, per ripresentarsi quindi, a partire dal pensiero rinascimentale, come uno dei "piaceri" della vita. Ma per alcuni romantici, tra cui Novalis, il vino (assieme all'oppio) sarà di nuovo un mezzo per raggiungere il divino che è in noi.

Massimo Donà, «Filosofia del vino», Bompiani, Milano 2003, pagg. 232, € 8.

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