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Il Sole 24 Ore

L’euro forte penalizza il vino: l’apprezzamento della moneta appesantisce le esportazioni che in nove mesi hanno perso il 17%. Gli Usa sono l’unico mercato in controtendenza (+8) ma le vendite dell’Australia corrono di più ... Tiene il Nord America ma perde copiosamente il resto del mondo. L’export italiano di vino è sulle montagne russe, con i volumi dei promi nove mesi del 2003 a quota 8,3 milioni di ettolitri - secondo le statistiche Ice - in calo del 17% rispetto allo stesso periodo del 2002.
Il crollo nei volumi è solo attenuato da un –1,7% in valore (1,7 miliardi di euro), per effetto “caro euro” e del contemporaneo ritocco apportato sui listini Fob. Questo comunque non mitiga la difficile situazione che si è venuta a creare sui mercati internazionali per quello che tuttora è considerato un gioiello dell’agroalimentare made in Italy. Anche se questo bilancio arriva in concomitanza con una domanda nordamericana che resta in area positiva.
E’ un fatto che tra gennaio e ottobre del 2003 le case vinicole italiane hanno mantenuto i flussi all’export su buoni ritmi di marcia. Secondo quanto si apprende dall’Italian wine & food institute (Ixfi) di New York, nei primi dieci mesi dell’anno l’Italia ha totalizzato spedizioni per 1,6 milioni di ettolitri e introiti per 672 milioni di dollari, mettendo così a segno incrementi rispettivamente dell’8 e del 20 per cento. Si tratta di indicatori sicuramente incoraggianti di questi tempi, che però non tengono conto di due ingredienti tutt’altro che di facile previsione. Vale a dire la galoppata dell’euro sul dollaro, rimasta sostenuta sul finire del 2003 e tuttora in piena fase evolutiva. A questo si aggiunga la marcia del “bulldozer” australiano, i cui vini negli stessi dieci mesi hanno registrato una crescita del 40 per cento in Usa. Dei due “ingredienti”, quello della competizione australiana appare a prima vista il più ostico; in realtà – osserva il direttore dell’Iwsi, Lucio Caputo, costituisce il male minore. Per una questione molto pratica: fino a quando non verranno a produzione i nuovi impianti messi a dimora, i vini “made in Australia” disponibili per il mercato Usa rimarranno per qualche tempo limitati.
Diverse e di natura prettamente congiunturali sono, invece, le questioni dell’euro forte e del rialzo dei prezzi, i cui effetti hanno un’inevitabile e immediata ricaduta sulle spedizioni italiane. Soprattutto per quei vini di fascia medio-alta che, in una condizione di economia tutt’altro che favorevole, sono diventati i prodotti di cui i consumatori possono fare i consumatori possono fare più facilmente a meno. La conferma arriva dagli stessi operatori, che sono i primi ad avvertire gli effetti di questa infelice congiuntura. Marco Caprai, nome emergente dell’enologia di qualità italiana e padre putativo di quel Sagrantino di Montefalco che ha convinto i palati più esigenti a livello internazionale, dice: “Il 2003 è andato abbastanza bene in Italia con una crescita del fatturato aziendale del 5,5 per cento. Poteva andare anche meglio se l’estero e l’America avessere risposto com’era nelle attese. Ma con i consumatori che hanno meno soldi da spendere, il risultato è che i vini di maggiore prezzo sono stati i più penalizzati”. L’analisi di Caprai trova l’avallo di Antonio Zacchero della Carpineto, azienda chiantigiana che la scorsa estate escogitò (insieme alla Umberto Cesàri di Bologna e Montresor di Verona) con i propri importatori Usa un rapporto di cambio fisso euro-dollaro (1° a 1,15) per tutto il 2003. “Quell’accordo – dice Zaccheo – ci ha permesso di recuperare molto delle perdite pari al 15% che avevamo accumulato nei primi sei mesi di export in Usa”. Memore di questo successo, nei giorni scorsi le stesse aziende hanno rinnovato quell’accordo, fissando un nuovo rapporto di 1 Euro per 1,20 dollari valido per tutto il 2004. (arretrato de "Il Sole 24 Ore" del24 gennaio 2004)

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