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Il Sole 24 Ore

Il vino scopre l'Egitto. Nel 2005 l'import dall'Italia è cresciuto del 316% ... A fare l’andatura c’è come sempre il tris Usa-Germania-Gran Bretagna, ma per l’export del vino made in Italy la novità sta altrove. Con l’Egitto che per "meriti" turistici gioca il ruolo del trascinatore con un incremento negli acquisti del 316%, seguito da Slovenia (+221), Vietnam (+197), Slovacchia (+159), quindi Russia Repubblica Ceca, Maldive, India. E persino gli Emirati Arabi, la cui crescita (+22%) anche qui si spiega essenzialmente con l’accelerazione dei flussi turistici che sta interessando un po tutta l’area del Golfo.
Le variazioni sono relative all’export di vino italiano nei primi otto mesi del 2005 che ha cumulato 9,1 milioni di ettolitri (+9%) per 1,82 miliardi di euro (+2%). E che a differenza della domanda interna, che continua a sonnecchiare, conferma lo stato di buona salute dell’enologia tricolore nel mondo (da New York, l’Ice fa sapere che nei primi dieci mesi di quest’anno l’Italia ha esportato in Usa vino per 900 milioni di dollari, con un aumento del 15,6%) e dice anche che nuovi Paesi consumatori bussano alla porta.

È un fatto che buona parte di questo flusso sia diretto verso un ristretto numero di mercati. Il focus vino dell’Ice presentato al convegno Ismea al Banco d’Assaggio di Torgiano, in Umbria, ha evidenziato il fatto che il 90% delle spedizioni tricolori sia diretto verso 11 Paesi e di questi il tris Usa-Germania-Gran Bretagna incide per il 74 per cento. Una concentrazione troppo alta che fa a pugni con la logica della diversificazione del rischio.

Rischio che è destinato ad aumentare di pari passo al miglioramento delle strutture di vendita dei così detti nuovi Paesi produttori, «poiché - osserva il responsabile vini della catena Auchan, Stefano Pesenti - un conto è trattare con i venditori di quattro gruppi che rappresentano l’80% dell’offerta australiana e un conto è farlo con i rappresentanti di mille e più aziende italiane, dove le prime quattro controllano appena il 15% dell’offerta totale». Con quel che ne segue in termini di competitività e prezzi finali. Ma attenzione. Se il quadro competitivo dell’Italia vinicola non è dei migliori, non per questo bisogna strapparsi i capelli. Anzi, come s’è visto i flussi danno ancora ragione al vino made in Italy. Proprio ora che la logica della diversificazione del rischio comincia a prendere corpo.

Flaminia Ventura, responsabile della segreteria tecnica del Ministero delle Politiche Agricole, dice: «Il successo mietuto dall’Italia in questi anni sui mercati internazionali è dovuto al fattore qualità, ma anche alla unicità dei nostri prodotti che non sono clonabili e sono l’espressione di una cultura del territorio che altri Paesi competitori non dispongono». E tanto basta per fare la differenza. Che non solo i consumatori sanno apprezzare, ma anche la critica internazionale riconosce in molti vini che sono il frutto di lavorazioni esclusive del made in Italy.

È il caso dell’Oreno Sette Ponti, un prodotto che contiene la tradizione del Sangiovese di Toscana e l’internazionalizzazione del Cabernet, quand’anche del Merlot, e che la rivista americana "Wine Spectator" quest’anno ha inserito, unico vino italiano, tra i "top five" a livello mondiale. Un risultato che si inserisce nel solco aperto da diversi altri vini di questa Penisola dei mille e uno vini tipici del made in Italy. «L’essere tra i "top five" nel mondo - dichiara il titolare della tenuta, Antonio Moretti - non solo onora la nostra casa, ma ritengo premi tutta la proposta enologica italiana fatta di prodotti unici e valori particolari». Quei valori, cioè, che americani, tedeschi e britannici conoscono già e che ora probabilmente stanno cominciando ad apprezzare anche i consumatori russi, sloveni, vietnamiti, cinesi, indiani. E, perché no, anche nei Paesi di cultura araba.

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