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Il Sole 24 Ore

Gaja: le mie bottiglie da mille euro. Il «re» del Barbaresco strega Abramovich e trionfa da Christie’s … Angelo Gaja è un vignaiolo eccellente. Uno di quelli che grazie alla bontà, all’originalità e all’immagine dei suoi prodotti fa parlare molto del vino italiano nel mondo. E non solo per i prezzi da affezione delle sue bottiglie, che possono raggiungere anche i mille euro, come sembra sia capitato di pagare senza colpo ferire a Romano Abramovich l’estate scorsa: il magnate russo avrebbe creato qualche difficoltà ai distributori della Costa Smeralda, costretti a salti mortali per fare fronte a una repentina richiesta di due dozzine di bottiglie di Costa Russi, il vino bandiera della scuderia Gaja.

Angelo Gaja è un piemontese tutto d’un pezzo con interessi anche in Toscana: oltre alla tenuta di Barbaresco e Barolo, possiede la Pieve S. Restituta a Montalcino e Ca’ Marcanda a Bolgheri, per un totale di 316 ettari di vigneti e 650 mila bottiglie per buona parte prenotate da acquirenti internazionali affezionati ai vini della casa italiana Gaja, che negli anni ’80 è stato il primo in Italia a lasciare i futures nel vino, salvo poi ricredersi, è uno strenuo sostenitore di una viticoltura di qualità selettiva. Al punto che, quando qualche tempo fa ritenne che sotto la denominazione del Barbaresco potessero nascondersi delle “sanguisughe”, egli non esitò a circoscrivere l’uso di tale nome solo ad alcuni vini della compagine aziendale, inserendo i gioielli da 100 o 200 euro sotto l’assai più comune insegna di Langhe Nebbiolo.

Lì per lì ci fu chi non comprese il perché di quell’azione, ma nessuno si alzò a contraddirlo. Anche perché la sua non era una scelta che volgeva le spalle al territorio; al contrario, sposando l’area geografica ne esaltava il senso di appartenenza. Al tempo stesso, dava linfa vitale alla politica di esclusività che Angelo Gaja ha sempre cercato di dare ai propri vini. I fatti gli hanno dato ragione, se è vero come sembra che le difficoltà che in questi anni hanno investito i grandi rossi piemontesi e toscani, non hanno mimato l’aureola del marchio Gaja. I cui vini hanno continuato a tenere banco alle aste londinesi o newyorkesi battute da Christie’s e Sotheby’s.

Coraggioso, dunque. Ma anche lungimirante, senza per questo perdere di vista il presente. E quel che vede non è ancora il quadro roseo degli anni migliori. «Il fondo del tunnel - afferma - mi sembra meno buio del solito, ma per arrivarci ci vuole ancora del tempo. Quanto? Non lo so. Anche perché in giro vedo un accumulo di eccedenze e sarebbe pericoloso non tenerne conto». Eccedenze che preoccupano, tanto da spingere alcune hobby a reclamare politiche protettive contro l’import di vini dai Paesi del nuovo mondo.

Richieste che Gaja non condivide affatto: «Come si fa a chiudersi a riccio - osserva - quando proprio noi siamo il Paese che esporta più vino di tutti nel mondo? Ne vendiamo 15 milioni di ettolitri per tre miliardi di euro. Vogliamo davvero farci del male mettendo a repentaglio questo primato? Certo si può discutere di tutto, ma non dobbiamo perdere il senso delle cose. Soprattutto non possiamo dimenticare che gli negli anni ’70 l’Italia era la Cina di oggi».

Il messaggio è sin troppo chiaro per non capire che per Angelo Gaja, 64 anni, - e la sua giovane figlia Gaia che da qualche tempo lo affianca (gli altri due figli Rossana e Giovanni sono ancora studenti) - le difficoltà che tuttora si incontrano sui mercati «non debbono essere affrontate con tagli dei prezzi». Al contrario, il vignaiolo che dall’inizio della sua carriera, nel 1961, ha vinto tutti i premi in circolazione ritiene che la questione meriti più attenzione di quanto si creda, ma non per parlare di prezzi al ribasso.

«In Italia - aggiunge - si parla di vini di fascia alta partendo dai tre euro in su; altrove nel mondo questo valore va come minimo raddoppiato perché i parametri che concorrono alla formazione del prezzo non si fermano al solo prezzo. Bisogna metterci al servizio, la disponibilità e reperibilità del prodotto, gli investimenti in ricerca e innovazione, c’è l’impegno che l’imprenditore ha dedicato nella costruzione dell’immagine dei suoi vini, c’è il prestigio dell’azienda, la sua storia». Che per il sempre “re” del Barbaresco deve essere assolutamente credibile». (arretrato de Il Sole 24 ore del 6 aprile 2006)

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