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Il Sole 24 Ore

L’Italia, Paese di enologi e sommelier ... Che c’è di nuovo tra “quelli del vino?”. Di certo il Vinitaly offrirà nuovi stimoli, ma prima di quei giorni in cui il vino diventa protagonista, così come le canzonette a San Remo, non c’è proprio nulla di nuovo che avanza? Forse il riconoscimento “mondiale” di Wine Spectator al Brunello di Montalcino di Casanova di Neri in un momento in cui in molti vedevano un crepuscolo di questo straordinario rosso toscano. E anche l’assopirsi della querelle sui prezzi del vino, aumentati negli ultimi anni rispetto a una crescita fisiologica. Ciò è davvero bizzarro perché i prezzi sono rimasti tali in enoteca, così come al ristorante ma nessuno abbaia più come in passato. Le interpretazioni possono essere due: o i rincari sono stati assorbiti “naturalmente” (ma come?) oppure il dibattito era pretestuoso.
Bisogna prendersela con un elemento del costo del ristorante. L’unico fatto positivo della vicenda è che le carte dei vini dei locali hanno ridotto le pagine, i vini a calice sono aumentati di numero e di qualità, il diritto di tappo può rinvenirsi anche in qualche ottimo locale pure in Italia. Comunque sia uno spettro continua ad aggirarsi fra cantine e ristoranti perché non si parla più di “caro vino”. I vini “diversi”quelli definiti di volta in volta: “vini veri”, “vini naturali”, “biodinamici” continuano a crescere di numero in quasi tutte le regioni italiane, ma non trovano un fronte comune, addirittura si presentano in contemporanea con il Vinitaly due rassegne distinte. Ciò significa che in questo mondo della diversità, così affascinante e intrigante, c’è tuttora una difficoltà di un pensiero comune sull’agricoltura e sulla vinificazione. Forse quello dì un pensiero “diverso” è proprio la forza di questi viticoltori, ma non essere gruppo per presentarsi al mercato è un sintomo di debolezza. Certo è che sempre più nelle carte dei locali si trovano le etichette di questi produttori, ma alla domanda perché sono “diversi” quasi sempre l’addetto al vino (sia esso il patron, un sommelier o un cameriere) non sanno rispondere adeguatamente. Così svanisce il racconto che può rendere ancor più piacevole il calice, soprattutto perché il consumatore sempre più vuole essere informato. I vini autoctoni sono sempre sulla bocca di tutti, a proposito e a sproposito.
In questo Paese di cuochi, barman e sommelier ormai pare che non esista altro. Certo che sangiovese, nebbiolo, montepulciano, nero d’avola, negroamaro eccetera, sono autoctoni, ma la produzione di vino scaturita da essi è sempre esistita in Italia. In effetti oggi quando si parla di autoctoni il pensiero non corre a questi, bensi ai vitigni salvati da qualche “eroe” o a quelli che sono stati riscoperti. Partiamo da un aspetto davvero importante che distingue quest’ultimi vini: lo stretto rapporto storico con il territorio che li trasforma in un vero e proprio “patrimonio culturale”. Questa valenza è la medesima che distingue i giacimenti gastronomici. Le conseguenze di questa visione sono la valorizzazione e la difesa dei vitigni autoctoni in quanto espressione di cultura materiale. Così come per quei giacimenti, che non possono diventare mercato (causa i limiti produttivi, materie prime, difficoltà di distribuzione) ma sono costretti a rimanere confinati nella nicchia, per i vini ottenuti da vitigni autoctoni è necessario creare delle “riserve protette” (il riferimento purtroppo è negativo se si pensa agli indiani) nei territori di produzione per far sì che quei rossi o bianchi storici possano diventare un richiamo per viaggiatori e appassionati, come succede per altri beni artistici e culturali.

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