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Il Sole 24 Ore

Non prendeteci per le stelle ... Una rivista inglese, “Restaurant”, vara ormai ogni anno la graduatoria dei migliori chef a livello internazionale. Un magazine americano, “Wine Spectator”, mette a punto la hit parade mondiale dei vini. Un altro periodico, “Travel”, incorona i più prestigiosi hotel del pianeta mentre un altro decide le stelle del cioccolato. E ripetendo un famoso refrain: “A noi cosa resterà?”. Forse le pizzerie. Viene da chiedersi se in Italia non amiamo le classifiche, oppure se siamo un po’ provinciali e poco propensi e preparati a visitare il mondo, a giudicare le altre culture gastronomiche o dell’ospitalità. Infatti i voti, i cappelli, i bicchieri sono sempre riferiti a locali e vini made in Italy.
Siamo indubbiamente “sciovinisti” nel cibo e nel vino quasi come i francesi: il rosso e il bianco del nostro territorio non hanno eguali; il miglior locale è quello sotto casa o all’angolo. Poi all’improvviso diventiamo dipendenti dai giudizi “forestieri”: basta che arrivi una graduatoria e, voilà, si aprono pagine e pagine agli oracoli. Così è successo settimane fa, quando il Brunello di Montalcino di Casanova Neri è stato giudicato il miglior vino, quasi in Italia fosse il rosso di un produttore sconosciuto (è un primo della classe da molti anni), così nei giorni scorsi è capitato con la hit parade dei 50 locali. A parte queste considerazioni “provinciali” la graduatoria di “Restaurant” (confesso di essere un votante da due anni, quindi non posso sostenere che sia truccata o falsata) merita un’analisi perché apre uno spaccato su quanto sta avvenendo a livello internazionale nella cucina.
E scontato il primo posto di Ferran Adrià: sebbene da più parti si senta parlare di declino, ritengo sia un primato largamente meritato. Dietro di lui, cresce molto veloce mente Heston Blumenthal (Fat Duck di Londra).
Ciò che invece balza all’attenzione per una lettura trasversale è che la ristorazione non è più rappresentata attraverso “nazionali della cucina di un Paese”, bensì emerge il solista, lo chef. Una novità non di poco conto a cominciare dalla Francia, dove il portabandiera è Pierre Gaignaire, più vicino alla cucina molecolare rispetto alla tradizione di quel Paese, seguito da Michel Bras, anch’egli non certo un tradizionalista.
Che dire della realtà made in Italy? Ben sei piazzati, ma un numero inferiore addirittura agli Stati Uniti - che, caso unico, collocano Thomas Keller con ben due locali nei primi dieci - e al Regno Unito. Una rivincita di quei Paesi, un tempo terzo mondo del gusto gastronomico. Chi fra questi sei ristoranti italiani può dirsi rappresentante della cucina tricolore? Forse il Pescatore di Canneto sull’Oglio, mentre gli altri (Cracco Peck, Combal. zero, Calandre, Enoteca Pinchiorri) sono certamente made in Italy per l’uso dei prodotti, ma solisti, interpreti di un loro modo di essere cuochi, soprattutto Fulvio Pierangelini, al dodicesimo posto, ma meritevole di diverse posizioni più in alto. Non c’è un fil rouge tra questi cuochi, né tantomeno tra gli spagnoli: Adrià, Santi Santamaria, Martin Berasategui. Neppure tra gli inglesi Ramsey e Blumenthal. Un segnale forse della supremazia dello chef compositore sul cuoco interprete? A livello di grande ristorazione sembra proprio così.
Ciò significa un addio alle cucine nazionali? Nell’assistere al rifiorire dei bistrot a Parigi o nel vedere la continuità delle trattorie nelle province d’Italia, pare di no, ma altrove non sono mai esistite. Sine qua non

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