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Il Sole 24 Ore

Lo sciopero dell’etichetta ... Vedo bene o sono diventato miope, presbite, cieco! Questa la mia reazione di fronte a una bottiglia di vino con un’etichetta bianca, immacolata. Un rosso, tra l’altro, risultato eccellente, dopo averne assaggiato alcuni calici. La curiosità di scoprirne l’identità è stata, a questo punto,davvero enorme. Sono stato subito esaudito da un messaggio legato attorno al collo che così parlava: “Questa è una delle trecento bottiglie prodotte da sole uve merlot, coltivate nella mia azienda sulla collina di Pinerolo. Purtroppo non mi è consentito chiamare questo vino merlot, ma, ahimè, vino da tavola rosso. Proprio ora che la tracciabilità del prodotto è chiesta a gran voce da tutti, di questo meraviglioso vitigno, che in ogni angolo del mondo desta così tanta stima, io devo tacerne il nome, l’anno e il luogo di produzione. È per ciò che lascio bianca l’etichetta. Usatela per lasciare un vostro pensiero, o un saluto e saremo di anno in anno trecento amici in più...”. La firma è di Francesco Romano dell’azienda agricola Bea di Pinerolo, già produttore di una ottima barbera Pinerolese.
Una protesta bizzarra, intelligente, magari anche tragicomica perché la bottiglia “etichetta bianca” potrebbe venire arrestata, così come successe anni fa con il barolo “no barrique, no Berlusconi” di Bartolo Mascarello.
Forse le manette al “merlot from Pinerolo” potrebbero servire per far luce sulle etichette del vino, così avare di informazione, così ricche invece nelle contro etichette di espressioni inutili, dal bouquet fino agli accostamenti, oppure di consigli fuori tempo, come “servire a temperatura ambiente” (si, ma quale? I 18-20di un’abitazione di città?).
A dire il vero nelle bottiglie di vino, in particolare nei bianchi, da qualche anno è comparsa una nuova informazione imposta: “Contiene solfiti”. La motivazione è dovuta la fatto che tra i principali additivi in letteratura scientifica i solfiti sono indicati come “possibili” responsabili di crisi allergiche.
In realtà solo nei vini dolci liquorosi della Francia e della Germania e di altri Paesi vengono ammessi tenori di SO2 (anidride solforosa) veramente significativi, fino a 400 milligrammi/litro, mentre in Italia il tenore massimo ammesso per alcuni passiti è pari a 260 milligrammi. Ebbene anche su questa indicazione in bottiglia e soprattutto sull’uso o meno della SO2 non mancano le discussioni. Esempio lampante la scritta sulla contro-etichetta negli eccellenti vini dell’azienda agricola Massa Vecchia di Massa Marittima (appartiene al gruppo Vini veri) dove si legge: “Non contiene solforosa aggiunta”. Quale il significato? “L’informazione con cui si precisa la mancanza di solforosa aggiunta - raccontano i produttori Patrizia Bartolini e Fabrizio Niccolaini - e che appare insieme a un’altra contraddittoria etichetta “contiene solfiti” vuole spiegare che il vino in questione è stato ottenuto impiegando come solo e unico ingrediente: l’uva delle nostre vigne.
In realtà la legge obbliga il produttore ad apporre la dicitura quando il contenuto della solforosa totale nel vino è uguale o superiore a 10 milligrammi per litro. La solforosa è una sostanza che si sviluppa naturalmente durante il processo di fermentazione del mosto. Così può succedere che nei nostri vini superi di poco la soglia dei 10 milligrammi, mentre il limite di legge per i vini bianchi è di 210 milligrammi, per i rossi 160, per i passiti fino a 260. Per la legge, in pratica, non c’è differenza alcuna tra un vino che ha 10 milligrammi di solforosa “naturale” e uno che ne ha 260 aggiunti, ma forse per il nostro corpo sì”.
Penso valga la pena sottolineare che le etichette del vino sono le più carenti in fatto di informazione: la tanto evocata “tracciabilità” della materia prima (uva) non è rispettata, così come l’indicazione dei vitigni nei vini da tavola, tutto questo grazie alle imposizioni dell’Unione europea di non citare l’origine degli alimenti. Chiarezza vo’ cercando... che è si rara su cosa si mangia! Sine qua non.

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