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Il Sole 24 Ore

Acquisizioni, via obbligata per crescere ... Su 250mila aziende meno di cinquanta superano i 40 milioni di fatturato... Quanti hanno la fortuna di conoscere i vini Marramiero? Non molti, se si escludono gli esperti dai “nasi d’oro”, i degustatori di professione che fanno la fortuna o affossano una nuova proposta. Marramiero è un marchio molto giovane sul mercato, ma i suoi prodotti occupano già un posto d’onore tra i grandi vini d’Abruzzo. Il marchio corrisponde alla tenuta fondata una decina di anni fa dall’omonima famiglia abruzzese che opera prevalentemente nell’impiantistica industriale.
La tenuta Marramiero, per quanto abbia già una cinquantina di ettari di vigneti e produca 500mila bottiglie, non è che una piccola azienda nel panorama vitivinicolo italiana. Decisamente famosi sono invece i vini del gruppo vinicolo Santa Margherita fondato della famiglia Marzotto che, oltre alla qualità dell’offerta - vellutato e ruffiano il suo Pinot Grigio -,vanta una efficiente gestione della leva del marketing.
Marchio diffuso in tutto il mondo, Santa Margherita ancorché essere portabandiera dei vini del territorio, è espressione anche di gusti e valori internazionali: tra l’altro ha il controllo dell’azienda Ketmeier sul lago di Caldaro, in Alto Adige. E per quanto il gruppo disponga di un portafoglio ben articolato, resta tutto sommato una realtà dai milioni di bottiglie e ricavi per 75 milioni di euro. Dunque, di medie dimensioni. Il che vuole dire molto nel contesto nazionale, poiché su 250mila imprese solo una quarantina di esse dispongono di fatturati sopra i 40 milioni; e appena cinque vanno oltre il tetto dei 100 milioni, di cui le prime tre sono cooperative: Caviro, con 282 milioni, Giv con 266, Cavit con 173 milioni. Se però il confronto avviene su basi internazionali, il discorso cambia completamente prospettiva. Con tutto quel che ne consegue in termini di competitività con aziende e marchi Usa, australiani, sudafricani e forse anche argentini.
I limiti causati dal problema dimensionale non toccano questa o quella azienda, ma tutto il sistema Paese. E ancora di più quello che ha a che fare con il vino. Per questo sempre più spesso gli addetti ai lavori e non ne discutono, consapevoli del fatto che il nanismo aziendale accelera la dispersione delle risorse e fa perdere in competitività. Anche se va preso atto che nonostante queste debolezze, l’Italia enologica non s’arrende all’aggressione internazionale, grazie a un’offerta fatta di prodotti eccellenti che, almeno nella tipicità e originalità, restano inimitabili. Ma se i vini che la Penisola esporta (17 milioni di ettolitri per 3,4 miliardi nel 2006) costituiscono il pacchetto più corposo dell’interscambio mondiale, questo non vuole dire che restare piccoli sia la migliore risposta Tutt’altro. Dopo decenni di conformismo, negli ultimi due-tre lustri molte sono state le iniziative adottate dai protagonisti del vino per vedere crescere la propria azienda. Alcuni si sono affidati ai soli mezzi propri, altri hanno fatto ricorsi al credito ordinario e speciale, altri ancora hanno cercato l’alleanza con partner industriali e qualcuno (ancora pochi per la verità) ha pure aperto al capitale di soci finanziari. Qualunque sia la strada intrapresa, l’obiettivo di fondo era quello di crescere in numeri di ettari, bottiglie e marchi posseduti.
La ricerca dal titolo “I profili finanziari delle imprese vinicole” condotta da Stefano Cordero di Montezemolo, professore di Finanza aziendale all’Università di Firenze, riporta quelle che sono state le principali acquisizioni avvenute di recente in Italia. Una curiosità che si ricava è che non tutti comprano tutto, ovvero vi sono nomi di protagonisti che dimostrano di avere più interesse di altri ad acquistare.
È il caso del consorzio trentino La Vis che, dopo avere acquisito Casa Girelli, si aggiudica con la Fratelli Rinaldi gli spumanti della Cesarini Sforza, per poi andare a fondersi con l’altro consorzio trentino Valle di Cembra. Altro protagonista è il gruppo del liquore Ilva di Saronno, che ha rilevato i vini Corvo della siciliana Duca di Salaparuta, prima di entrare in compartecipazione nel terzo gruppo vinicolo cinese Changyu. E che dire di Zonin e di Giv.
Il gruppo vicentino è stato il primo a credere nelle potenzialità della Sicilia, investendo nei Principi di Butera, dopo avere fatto shopping in Lombardia, Toscana, Piemonte, Friuli, e infine la Puglia. Quanto al Giv, il gruppo vinicolo italiano già ricco di suo, non si è risparmiato nel fare incetta di marchi nel Sud dello Stivale. Una campagna acquisti intensa, quella del Giv, che ha fatto pensare a un prossimo sbarco del gruppo in Borsa. Con delusione degli osservatori, poiché la proprietà del consorzio ha invece preferito allearsi con l’Isa, il fondo di investimenti del ministero delle Politiche agricole.
La Borsa valori l’ha invece scelta Campari, che ora non è più solo il gruppo dell’aperitivo ma dispone di una divisione vinicola di tutto rispetto fatta di marchi rappresentativi sia nel vino tranquillo che negli spumanti. A cui presto potrebbero aggiungersi altri marchi. Ma quante sono le aziende o i gruppi che in Italia possono adottare queste politiche di sviluppo?

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